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Per noi donne è inevitabile. Almeno una volta nella vita ce lo siamo chieste: ma perché gli assorbenti costano così tanto? E’ colpa nostra se le nostre ovaie funzionano? A quanto pare, almeno in Italia, la risposta sembrerebbe essere, rullo di tamburi, sì. Già perché da noi gli assorbenti non vengono considerati beni essenziali al pari di pane, pasta, riso, quotidiani e protesi dentarie, tutti giustamente tassati al 4%, ma i nostri cari, questa volta in tutti i sensi, assorbenti sono tassati al 22%, come uno smart-phone e un tablet. Eppure, non ci vuole un genio per capirlo, si può vivere, benché molti potrebbero dubitarne, sia senza smart-phone che senza tablet mentre, per noi donne, è impossibile condurre una vita normale sprovviste dei nostri alleati assorbenti.
Per tutte queste ragioni molte donne saranno liete di sapere che una giovane ragazza, Chiara Capraro, ha avuto la bella idea di scrivere una petizione a riguardo: la richiesta è diretta al ministro dell’Economia e delle Finanze Padoan e mira a far considerare gli assorbenti beni essenziali e, dunque, tassati al 4% e non al 22% come avviene oggi. Per il momento hanno firmato la petizione 37 mila cittadini, l’obiettivo è arrivare a quota 50 mila. Cosa stiamo aspettando? Aderiamo insieme all’iniziativa firmando la petizione presente su change.org.
Pensiero del momento: visto che ci siamo, perché non estendere l’iniziativa anche ai pannolini?
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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