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Qualche giorno fa, scrivendo per la rivista online Formiche, Maurizio Martina, vice direttore generale della FAO, ha ricordato che nel 2021 le esportazioni di cereali di Russia e Ucraina hanno rappresentato circa il 30% del mercato globale. Inoltre la Russia nel 2020 è stato il primo esportatore di fertilizzanti azotati, il secondo di potassio e il terzo di fertilizzanti al fosforo. Scontata la conclusione: “l’interruzione nelle filiere di produzione e le restrizioni alle esportazioni metteranno a rischio la sicurezza alimentare dei Paesi che dipendono dalla Russia e dall’Ucraina sia per la fornitura di cereali, sia per quella di fertilizzanti”.
Per aver ben chiara la dimensione del problema è bene sapere che nell’Africa del Nord, in Medio Oriente e in Asia più di 50 Paesi ricevono oltre il 30% del loro grano dalla Russia e dall’Ucraina. Nel Corno d’Africa la percentuale sfiora il 50%. “In questi Paesi – ha scritto Martina – il problema non riguarda l’accessibilità ma la disponibilità. Ricordiamo che stavamo uscendo da una crisi globale che negli ultimi due anni ha spinto milioni di persone al di sotto della soglia di povertà con un drammatico peggioramento della fame e della malnutrizione nel mondo”.
In una recentissima riunione sulla crisi alimentare il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha dichiarato: “I livelli di fame nel mondo hanno raggiunto un nuovo massimo. In soli due anni, il numero di persone con insicurezza alimentare grave sono raddoppiate, dai 135 milioni pre-pandemia ai 276 milioni di oggi”. “La guerra in Ucraina sta amplificando e accelerando gli altri fattori, cambiamento climatico, covid e disuguaglianza – ha proseguito Guterres – minaccia di portare decine di milioni di persone oltre il limite dell’insicurezza alimentare, seguita da malnutrizione, fame di massa e carestia, in una crisi che potrebbe durare per anni”. Il Camerun, la Libia, la Somalia, il Sudan e lo Yemen sono i Paesi più esposti a questo terribile minaccia.
Ma non esiste una soluzione credibile senza reintegrare nel mercato mondiale la produzione di cereali e fertilizzanti dell’Ucraina, della Russia e della Bielorussia. Eppure le trattative per conseguire questo risultato restano al palo.
David Beasley, capo del Programma alimentare mondiale (World Food Program), alla presenza del segretario di Stato americano Antony Blinken, ha chiarito: “Siamo davvero in una crisi senza precedenti. Il prezzo del cibo è il nostro problema numero uno in questo momento. Ma nel 2023 ci sarà un problema di disponibilità di cibo. Quando un paese come l’Ucraina, che coltiva cibo a sufficienza per 400 milioni di persone, è fuori mercato, crea la volatilità del mercato che ora stiamo vedendo. La mancata apertura dei porti nella regione di Odessa sarà una dichiarazione di guerra alla sicurezza alimentare globale. E si tradurrà in carestia, destabilizzazione e migrazione di massa in tutto il mondo”.
Mario Draghi, in una recente informativa alle Camere, ha auspicato un’iniziativa umanitaria che restituisca al mercato milioni di tonnellate di grano attualmente fermi nei porti nel Sud Ucraina. Ma la guerra è spietata. “Apriremo l’accesso ai porti ucraini solo se l’Occidente eliminerà le sanzioni sull’export”, ha risposto il viceministro degli esteri della Federazione Russa Andrei Rudenko.
Sono nato a Pescara il 18 settembre 1955 e vivo a Francavilla al Mare con mia moglie Francesca e i miei figli Camilla e Claudio. Ho una formazione umanistica, acquisita frequentando prima il Liceo Classico G.B. Vico di Chieti e poi l’Università di Padova, dove mi sono laureato in Filosofia con Umberto Curi. Il primo lavoro è stato nella cooperazione: un’esperienza che ha segnato il mio futuro. Lì ho imparato a tenere insieme idealità e imprenditorialità, impegno individuale e dimensione collettiva, profitto e responsabilità. Negli anni seguenti ho diretto un’agenzia di sviluppo locale e promozione imprenditoriale, sono stato dirigente in un ente locale, ho lavorato come consulente anche per importanti aziende globali. Oggi sono presidente di una start up cooperativa: evidentemente i grandi amori tornano di prepotenza, quando meno te lo aspetti. Nel lavoro mi piace condividere progetti, costruire percorsi inediti, fare squadra, veder crescere giovani professionalità. Amo leggere e ascoltare musica, camminare in montagna e, appena possibile, intraprendere un nuovo viaggio.
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NCLUSIVITA’ O ASSIMILAZIONE NELL’INDIA TRIBALE IN RIVOLTA?
Gianni Sartori
Lo schiaffo del partitoinduista nazionalista al potere a tutto ciò che è
alieno, diverso, “intollerabile” diventa scherno con l’elezione di una
donna di origine tribale a presidente dell’India. Sicuramente non risolve i problemi di discriminazione e le pulizie etniche su cui Narendra Modi ha costituito il suo potere, ma con altrettanta certezza gli conferisce una patente di tolleranza. Laddove invece registriamo solo militarizzazione e repressione dell’India tribale in rivolta, sia nel Centronord indiano sia nel profondo sud del Tamil Nadu.
Con questo intervento vorrei dare testimonianza del saccheggio e delle modalità di soffocamento delle istanze di emancipazione delle comunità tribali a Kallakurichi come a Sukma.
Non si può certo affermare che quanto avviene in India ai danni delle popolazioni tribali sia sotto la lente e l’interesse dei media internazionali. Per cui difficilmente si viene adeguatamente informati su massacri, deportazioni (per consentire alle multinazionali, in particolare quelle dedite all’estrazione mineraria, di appropriarsi dei territori ancestrali delle popolazioni indigene), esecuzioni extragiudiziale, stupri di donne tribali ed arresti arbitrari operati dal regime di Narendra Modi.
Si era parlato invece (e non senza una certa enfasi) della elezione a presidente dell’India (una carica più che altro formale, cerimoniale…) di Droupadi Murmu, donna di origine tribale (i Santhal), in precedenza governatrice del Jharkhand.
Originaria dell’Odisha, milita da anni nel Bharatiya Janata Party, il partito dei fondamentalisti indù.
Per carità. Tutto può essere utile e se questo evento dovesse portare qualche beneficio alle popolazioni tribali (gli adivasi) e alle caste diseredate (i Dalit) ben venga.
Anche se, ci si augura, non nella logica sviluppista (e di devastazione umana e ambientale) che auspica Modi.
E’ lecito infatti avere qualche riserva su questo coinvolgimento, più che altro spettacolare ed elettoralistico, dei tribali nel progetto del Bjp. Allargare la propria base elettorale farà sicuramente gli interessi del Bjp, ma è lecito chiedersi quali vantaggi porterà alla conservazione delle lingue e della cultura tradizionale (oltre che alla loro sopravvivenza fisica) degli adivasi. Più che di “inclusività” si dovrebbe forse parlare di assimilazione.
ADDOMESTICAMENTO E RIVOLTA DELLE COMUNITA’ TRIBALI
Nel frattempo – ovvio – si intensifica la stretta repressiva, l’addomesticamento forzato delle popolazioni indocili e refrattarie al “progresso” neoliberista.
Eventi su cui si mantiene un rigoroso silenzio stampa a livello internazionale. Vedi per esempio quanto è accaduto nel villaggio di Silger (al confine tra Bijapur e Sukma nel Bastar meridionale del Chhattisgarh) dove la resistenza della popolazione locale si è protratta per oltre 400 giorni senza che la notizia abbia avuto un minimo di diffusione.
Così come era capitato con la notizia (ignorata dai media internazionali forse perché scoperchiava le passate malefatte governative) dell’avvenuta liberazione (il 15 luglio 2022) nel Chhattisgarh di 121 tribali (tra cui alcuni minorenni). Erano stati catturati nel 2017 con una serie di rastrellamenti nei villaggi della zona. Nel frattempo uno degli arrestati (o almeno quello finora accertato) era deceduto dietro le sbarre.
Tutte queste persone, come del resto era evidente fin dall’inizio, sono risultate estranee all’imboscata, opera di almeno trecento guerriglieri naxaliti (maoisti del People’s Liberation Guerrilla Army), di Sukma (Burkapal, 24 aprile 2017)) in cui avevano perso la vita 26 paramilitari della CRPF.
Sono completamente cadute sia le accuse di possesso di armi, sia di appartenenza al PCI (maoista).
Per cui la loro lunga, ingiusta detenzione acquista il senso di una rappresaglia a scopo “educativo”.
A Sukma militari e paramilitari sorvegliavano in armi i lavori per la costruzione di una strada che doveva attraversare i territori tribali per conto di un gruppo industriale.
L’attacco era stato rivendicato dal DKSZC (Dand Karanya Special Zone Committee) del PCI (maoista). Nel comunicato si sottolineava come l’attacco fosse una risposta di autodifesa non solo nei confronti delle politiche antipopolari del governo, ma soprattutto per le“atrocità sessuali commesse dalle forze di sicurezza contro le donne e le ragazze tribali”. Ossia gli innumerevoli stupri opera soprattutto dalle milizie paramilitari filogovernative. In sostanza “per la dignità e il rispetto delle donne tribali”.
Nel comunicato inoltre si smentiva decisamente (come poi è stato riconosciuto anche ministero dell’Interno) che sui corpi dei soldati uccisi si fosse infierito con mutilazioni e castrazioni. “Noi – aveva dichiarato Vikalp, portavoce della guerriglie- non manchiamo di rispetto ai corpi dei soldati uccisi. Sono i media borghesi che diffondono tali false notizie e invece spesso sono i militari che operano brutali trattamenti sui corpi dei guerriglieri maoisti”. Così come, aveva continuato “vengono riprese e diffuse nei social immagini riprovevoli delle guerrigliere uccise”. Per inciso, una pratica abituale anche da parte dei soldati turchi nei confronti delle combattenti curde.
Per concludere: “I soldati non sono nostri nemici. Tantomeno nemici di classe. Tuttavia si pongono al servizio dell’apparato antipopolare e dello sfruttamento operato dal governo. Rivolgiamo a loro un appello affinché cessino di combattere schierati al fianco dei politici sfruttatori, dei grandi imprenditori, delle compagnie nazionali e internazionali, delle mafie, dei fascisti indù etc che sono, per loro stessa natura, nemici dei dalit, dei tribali, delle minoranze religiose e delle donne.
Soldati, non sprecate la vostra vita per difendere tali personaggi e le loro ricchezze. Lasciate l’esercito e prendete parte alla lotta popolare”.
E LA LOTTA – forse – CONTINUA…
Tornando ai nostri giorni, va ricordato che il 17 luglio 2022 nel sud dell’India si sono verificati duri scontro tra giovani e polizia (con decine di feriti) dopo il suicidio di una studentessa.
I manifestanti erano penetrati nel campus (distretto di Kallakurichi nello stato di Tamil Nadu) incendiando veicoli della polizia e bus scolastici.
La ragazza prima di togliersi la vita aveva scritto una lettera in cui denunciava alcuni insegnanti per averla sottoposta a sistematici maltrattamenti (aveva usato il termine “torture”). La stessa cosa sarebbe era toccata ad altre studentesse.
All’inizio del mese (il 3 luglio) invece le proteste (con scontri, numerosi feriti e una dozzina di arresti) erano scoppiate a Nepali Nagar quando una quindicina di bulldozer erano arrivati per distruggere un centinaio di abitazioni costruite su terreni pubblici e definite “abusive” dalle autorità locali (nonostante da anni fossero stati realizzati gli allacciamenti e venissero raccolte le tasse municipali).
SRI LANKA: ARRESTATO ANCHE JOSEPH STALIN
Senza dimenticare che solamente uno stretto braccio di mare divide il Tamil Nadu (nel sud dell’India) da quello Sri Lanka ugualmente in subbuglio per le tensioni politiche e sociali( e dove nonostante i massacri di qualche anno fa sopravvive una folta comunità tamil…ma questa per ora è un’altra storia). Da mesi l’Isola è travolta da una crisi economica senza precedenti, probabilmente la peggiore dal giorno dell’indipendenza nel 1948: inflazione galoppante, scarsità di valuta straniera, lunghi, quotidiani periodi di mancanza elettricità, scarsità e razionamento di generi alimentari, medicinali e carburanti.
Un contesto desolato e desolante in cui non si attenua ma si inasprisce l’attività repressiva.
Il 3 agosto è stato arrestato Joseph Stalin (tranquilli, solo un omonimo, abbiamo controllato…) segretario del sindacato Sri Lanka Teachers’ Union. In prima linea nelle lunga serie di manifestazioni e proteste che hanno di fatto sfrattato e costretto il mese scorso alla fuga il presidente Gotabaya Rajapaksa.
Oltre che per l’insolito nome e per la sua notorietà (dell’arrestato s’intende), la detenzione di questo dissidente (peraltro durata solo una settimana per le rumorose proteste di chi ne richiedeva la scarcerazione) aveva suscitato qualche scalpore. Si trattava infatti, almeno finora, del più anziano tra le centinaia di persone incarcerate negli ultimi mesi. Tutte accusate di aver danneggiato, saccheggiato beni pubblici e di aver partecipato all’assalto della residenza di Rajapaksa (a Colombo il 9 luglio) quando i soldati avevano aperto il fuoco sulla folla.
Nonostante nei giorni precedenti fosse stato istituito il coprifuoco, a migliaia lo avevano ignorato e avevano costretto le ferrovie a condurli fino a Colombo per aggregarsi alla protesta in atto.
Del resto, pur avendo in un primo momento, diplomaticamente, garantito che si sarebbe applicata una distinzione tra “manifestanti” e “rivoltosi”, il nuovo presidente Ranil Wickremesinghe aveva promesso di prendere severe misure punitive contro gli autori dei disordini.
Tra gli arrestati anche un uomo di 43 anni accusato di aver prelevato e bevuto una birra dal frigo dell’ex presidente. Con l’aggravante di aver pubblicato la foto su Facebook (ma si può !?!) ed essersi portato via il bicchiere o una tazza. Un pericoloso sovversivo, beninteso.
Un altro manifestante, un sindacalista portuale, era già stato fermato per aver prelevato due bandiere dal palazzo e averle poi utilizzate una come copriletto e l’altra come sarong.
Appare quindi scontato che anche con il nuovo presidente la musica rimarrà la stessa. Poche ore dopo l’investitura ufficiale di Ranil Wickremesinghe (il quale mentre svolgeva tale funzione ad interim aveva decretato lo stato d’emergenza estendendo i poteri di polizia ed esercito), le forze antisommossa armate di fucili d’assalto avevano scacciato i manifestanti e abbattuto le barricate, trincerandosi poi attorno al palazzo presidenziale che qualche giorno prima era stato invaso da migliaia di persone.
Gianni Sartori
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