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Le armi e la pace. È possibile perseguire la pace e nel contempo armarsi? Eterno interrogativo. La risposta che trova più credito è quella di Vegezio: “Si vis pacem para bellum”. Eppure anche allora non sono mancati oppositori radicali a questa presunta evidenza, come i primi cristiani che sceglievano il martirio pur di non prestare servizio nell’esercito romano.
Ma veniamo all’attualità italiana. Che senso ha aumentare le spese militari fino a raggiungere la soglia del 2% del PIL? È un’opzione condivisibile? O, al contrario, significa abbandonare una tacita impostazione “a-militare” assunta nel tempo dal nostro Paese? Ebbene sì, l’Italia negli ultimi decenni ha approfittato dell’ombrello militare della NATO riducendo al minimo le spese militari, con il tacito consenso di tutte le forze politiche. Piuttosto ci siamo specializzati in operazioni di peace keeping con missioni di interposizione in numerosi scenari di guerra, maturando competenze professionali e acquisendo rispetto e considerazione in ambito internazionale.
Perché modificare questa “consolidata” impostazione? Non certo per autonoma convinzione ma perché lo chiedono, anzi l’esigono, i nostri interlocutori. La NATO in primo luogo. Esigenze di bilancio ma, soprattutto, la progressiva riduzione degli impegni internazionali da parte degli Stati Uniti. Ma lo vuole anche l’Unione Europea che inizia a muovere i primi passi in politica estera e, di conseguenza, nella propria organizzazione militare. Il conflitto alle porte di casa ha indubbiamente accelerato questo processo.
In più la guerra in Ucraina sembra aver imposto alla nostra opinione pubblica una scelta di campo: schierarsi senza esitazioni per la diplomazia o accettare l’inevitabile sostegno militare all’Ucraina e la correlata esigenza di adeguare gli armamenti nel nostro stesso Paese.
Ma sono davvero queste le opzioni su tavolo? Anche in questo caso non possiamo dimenticare che l’Italia sullo scenario internazionale è sostanzialmente ininfluente, che la dimensione minima per avere diritto di parola è l’Europa. Quindi, ancora una volta dobbiamo ripartire dall’opzione europea.
Ebbene, l’Europa contemporanea, quella del secondo dopoguerra, è la casa della democrazia e della pace. Il suo atto di fondazione consiste esattamente nella costruzione della pace nel continente più martoriato dalle guerre del 900. Prima di tutto la pace, e la diplomazia è lo strumento indispensabile per raggiungerla e preservarla.
Quanto detto non nega affatto l’alleanza atlantica ma impone una giusta dialettica con gli Stati Uniti. Washington non ha le stesse priorità di Bruxelles, gli americani considerano la guerra uno strumento essenziale della politica estera e lo hanno dimostrato in infinite circostanze. Gli europei ripudiano la guerra come strumento di soluzione dei conflitti internazionali. In più gli Stati Uniti praticano una logica “imperiale”, ragionano per sfere di influenza, “esportano” merci, capitali, valori. L’Unione europea ha un approccio profondamente diverso.
Noi europei dobbiamo perseguire l’obiettivo di disporre di un moderno ed efficiente esercito, un esercito europeo per l’appunto, efficace strumento di difesa e di autentico peace keeping. Ma soprattutto dobbiamo consolidare una comune politica estera e un’autorevole diplomazia che la sostenga nelle sedi opportune. In questo quadro razionalizzare le spese militari costituisce il primo fondamentale obiettivo. Poi, se necessario, verrà anche l’incremento della spesa.
Non possiamo più mettere la testa sotto la sabbia. L’Europa deve diventare adulta, confermare con convinzione l’opzione atlantica, emanciparsi dalla subalternità politica nei confronti degli Stati Uniti, praticare un’autonoma politica estera, dotarsi di un esercito efficiente. È questo il percorso di cui abbiamo bisogno. Il resto è ideologia o propaganda.
Sono nato a Pescara il 18 settembre 1955 e vivo a Francavilla al Mare con mia moglie Francesca e i miei figli Camilla e Claudio. Ho una formazione umanistica, acquisita frequentando prima il Liceo Classico G.B. Vico di Chieti e poi l’Università di Padova, dove mi sono laureato in Filosofia con Umberto Curi. Il primo lavoro è stato nella cooperazione: un’esperienza che ha segnato il mio futuro. Lì ho imparato a tenere insieme idealità e imprenditorialità, impegno individuale e dimensione collettiva, profitto e responsabilità. Negli anni seguenti ho diretto un’agenzia di sviluppo locale e promozione imprenditoriale, sono stato dirigente in un ente locale, ho lavorato come consulente anche per importanti aziende globali. Oggi sono presidente di una start up cooperativa: evidentemente i grandi amori tornano di prepotenza, quando meno te lo aspetti. Nel lavoro mi piace condividere progetti, costruire percorsi inediti, fare squadra, veder crescere giovani professionalità. Amo leggere e ascoltare musica, camminare in montagna e, appena possibile, intraprendere un nuovo viaggio.
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