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School for future: voglio tornare a scuola anche io!

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Adoravo andare a scuola. Mia sorella no, per lei ad esempio era una tortura. Eppure è sempre stata molto più diligente, studiosa, brava di me. E anche decisamente più mattiniera. Eppure per lei i compiti, le lezioni, la scuola in generale, non sono mai stati un piacere. Per me, invece, sì.

Anche se la sveglia era uno schiaffo in faccia ogni mattina. Anche se in alcune materie ero una vera frana. Anche se, di pomeriggio, studiare era l’ultima delle mie priorità. Ma io adoravo andare a scuola.

Forse perché ho sempre amato stare in compagnia; forse perché alcune delle persone che frequentavano la mia classe sono tutt’oggi come fratelli o sorelle per me; forse perché c’era sempre qualcuno che mi faceva battere il cuore da voler incontrare nei corridoi; o semplicemente perché in casa mi annoiavo molto di più che in classe.

Del resto, per me la scuola non è mai stata solo libri, interrogazioni, spiegazioni noiose. Per me era soprattutto risate, divertimento, novità, chiacchierate, amicizie, amori. E facevo di tutto per tornarci anche di pomeriggio all’interno di quell’edificio, dedicandomi alle attività più disparate: dal giornalino scolastico – ça va sans dire – al cineforum, passando per i laboratori di ricerca, i progetti a sfondo sociale e tutto ciò che mi desse l’opportunità di trascorrerci più ore possibili. E che dire delle assemblee di istituto, degli scioperi, delle occupazioni, delle manifestazioni di ogni genere. Vivevo di fronte al mio liceo e quando c’era aria di protesta mia madre, accorgendosene dalla finestra, veniva ad informarmi, sapendo che mai sarei rimasta a letto per godere di qualche ora di sonno in più, perché “la scuola, il mondo, o almeno il mio mondo, aveva bisogno della mia presenza”.

Sarà per questo che, pur facendomi sorridere, ho trovato da subito fuori luogo le parole del governatore della Campania De Luca quando definì una OGM la bambina che piangeva perché voleva andare a scuola, mentre lui aveva deciso che le aule dovevano rimanere chiuse. Ed è sempre per questo che ho provato tristezza per le lacrime di mia nipote che, essendo in zona rossa e frequentando la seconda media, è stata costretta a salutare nuovamente i suoi compagni di classe, senza sapere quando potrà rivederli nuovamente dal vivo.

Alla luce di queste considerazioni, non potevo non comprendere e sostenere le ragioni degli studenti che in questi giorni di restrizioni e di lezioni da remoto attivate in tante regioni d’Italia stanno protestando fuori dai cancelli dei loro istituti per chiedere di tornare in classe.

Movimento ‘Schools for future’ contro la didattica a distanza: così è stata subito ribattezzata l’iniziativa partita da Anita e Lisa, due studentesse di Torino che hanno voluto far sentire la loro voce, scegliendo di seguire le lezioni online proprio davanti alle loro scuole. Una presa di posizione che è stata subito condivisa e replicata da altri studenti, e appoggiata da diversi genitori e insegnanti in tutta Italia. L’idea è quella di manifestare in maniera pacifica ogni venerdì, pur continuando a seguire le lezioni armati di pc portatile e wifi.

E’ per questa ragione che l’iniziativa ha assunto questo nome, “School for future”, perché a molti ha ricordato le proteste della giovane Greta Thunberg – gli ormai noti Friday for future, contro i cambiamenti climatici.

Ma i promotori della protesta non ci stanno. Troppo alto il paragone, molto più semplice e a portata di mano il loro obiettivo. Gli studenti chiedono solo di poter tornare in classe e promettono di impegnarsi a rispettare le regole anti-contagio: indossare le mascherine, mantenere il distanziamento e igienizzarsi frequentemente le mani. Quelle semplici norme che possono prevenire il contagio e che per tutti noi sono diventate una (seppur fastidiosa) abitudine. Del resto ne va della loro formazione e della loro crescita, culturale sicuramente – la didattica a distanza, seppure svolta alla perfezione, non sarà mai uguale a quella in presenza, lo dicono gli stessi insegnanti – ma anche e soprattutto umana. Penso a quelli come me, i “bulletti” sempre in prima linea, ma penso anche a chi ha problemi di socializzazione, disagi adolescenziali, disturbi di ogni genere, disabilità. Sono coloro per i quali la scuola rappresenta il primo banco di prova con la vita, dove si affina la capacità di cavarsela da soli fuori dalla comfort zone della famiglia, dove si impara a cadere e a rialzarsi più forti di prima.

Il Covid esiste, spaventa e uccide, è vero. Ma l’ignoranza, il disagio, la solitudine di migliaia e migliaia di adolescenti che rappresentano il futuro del nostro Paese a me, onestamente, fanno molta più paura.

Il direttore

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