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Siamo ormai alla vigilia del voto per la Presidenza degli Stati Uniti. Ancora un confronto televisivo, una manciata di comizi da un capo all’altro del Paese ed ecco il 3 novembre. In realtà hanno già espresso la loro scelta diversi milioni di elettori – attraverso il voto tramite posta – e molti ancora si accingono a farlo. I sondaggi sono largamente favorevoli a Joe Biden ma nessuno può ragionevolmente sostenere che la partita sia chiusa.
Indubbiamente Donald Trump sembra in difficoltà. Non si contano più le sue aggressioni a giornalisti e virologi. Tutti i democratici sono diventati “radicali” e di sinistra oppure, semplicemente, corrotti. La Cina è il nemico numero uno, la vera colpevole di una pandemia progettata per indebolire il gigante americano. L’Europa è guardata con diffidenza e distacco. Ogni giorno i toni sono volutamente più esasperati, cercando di raccogliere consenso ovunque e comunque, concedendo largo spazio a estremisti e suprematisti.
Biden sembra avere il vento in poppa. Ha “sfangato” il primo duello televisivo evitando di lasciarsi sopraffare dall’aggressività dell’avversario. Conduce la sua campagna con pacatezza, mostra buon senso e prudenza nel trattare il difficile tema del COVID 19. Kamala Harris (scelta per diventare la sua vice) fa la propria parte e anche Barak Obama è pronto a scendere in campo schierandosi al suo fianco.
Buona parte del mondo dell’informazione si è mostrata piuttosto aggressiva nei confronti di Trump denunciando molti presunti scandali. Allo stesso modo i dirigenti democratici, a partire da Nancy Pelosi, presidente della Camera dei Rappresentanti, sono arrivati a minacciare l’impeachment.
Tutto risolto, quindi? Sconfitta annunciata per Trump e largo successo per Biden? Difficile dirlo. È indubbio che le sbruffonate del presidente abbiano stancato una parte consistente dell’elettorato e che la gestione della pandemia, fatta salva qualche frangia negazionista, abbia creato molto malcontento.
È altrettanto vero che lo “stile” di Trump – clownesco, irrituale e spesso imbarazzante – corrisponde a un sentire profondo del Paese, non più limitato ad alcune aree geografiche e a pochi ceti sociali; al contrario quel sentiment è ormai diffuso nell’opinione pubblica. Noi italiani dovremmo essere tra i primi a riconoscere il fenomeno poiché lo abbiamo vissuto direttamente con la discesa in campo del Cavaliere. Mi riferisco al Berlusconi del primo ventennio – non quello odierno, moderato e “statista” -, quello che ha spazzato via la classe dirigente della Prima Repubblica stravolgendone cultura, comportamenti, liturgie, quello che ha dato dignità pubblica al linguaggio da bar.
Agli occhi degli elettori di Trump, e per la verità non solo ai loro, Biden incarna l’establishment, il potere costituito, la ripetizione del già visto, come quattro anni fa Hillary Clinton. Paradossalmente Trump si presenta ancora come la novità, colui che rompe gli schemi, il portavoce dei senza voce. Inutile ricordare che in realtà Trump tutela interessi forti e tradizionali, a partire dalle lobby dei petrolieri e dei produttori di armi.
D’altra parte non si può neppure dimenticare che la parte più innovativa del Partito Democratico è stata “sconfitta” nelle primarie e Biden è un signore anziano e moderato, garante del mondo dell’industria e della finanza. Come sempre, sull’altare della conquista dell’elettorato di centro, sono state sacrificate le istanze più innovative e radicali.
Naturalmente chi scrive auspica che il democratico Biden abbia la meglio sull’estremista Trump. Tuttavia, come accaduto per Berlusconi, ridicolizzare l’avversario e cercarne la sconfitta per via giudiziaria è sempre un gravissimo errore. Allo stesso modo è necessario ricordare che gli Stati Uniti non hanno soltanto bisogno di ragionevolezza e di serietà ma anche di ridare senso al “sogno americano”, riscoprendo i valori dell’accoglienza, dell’integrazione e della giustizia sociale, tornando a essere il Paese delle opportunità per tutti. Le primarie del Partito Democratico avevano ben interpretato quest’esigenza. La campagna elettorale sembra averla rimessa in ombra. Ma il processo di rinnovamento resta assolutamente necessario altrimenti, sconfitto o vincente, Biden resterà sempre un’espressione dei “poteri forti” e i populisti avranno ancora praterie sconfinate per la loro propaganda.
Sono nato a Pescara il 18 settembre 1955 e vivo a Francavilla al Mare con mia moglie Francesca e i miei figli Camilla e Claudio. Ho una formazione umanistica, acquisita frequentando prima il Liceo Classico G.B. Vico di Chieti e poi l’Università di Padova, dove mi sono laureato in Filosofia con Umberto Curi. Il primo lavoro è stato nella cooperazione: un’esperienza che ha segnato il mio futuro. Lì ho imparato a tenere insieme idealità e imprenditorialità, impegno individuale e dimensione collettiva, profitto e responsabilità. Negli anni seguenti ho diretto un’agenzia di sviluppo locale e promozione imprenditoriale, sono stato dirigente in un ente locale, ho lavorato come consulente anche per importanti aziende globali. Oggi sono presidente di una start up cooperativa: evidentemente i grandi amori tornano di prepotenza, quando meno te lo aspetti. Nel lavoro mi piace condividere progetti, costruire percorsi inediti, fare squadra, veder crescere giovani professionalità. Amo leggere e ascoltare musica, camminare in montagna e, appena possibile, intraprendere un nuovo viaggio.
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