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“Ne usciremo migliori”, dicevano. “Saremo tutti più buoni ed empatici”, ipotizzavano.
Io no. Non ho mai creduto realmente che la pandemia di Covid19 che ha colpito il mondo intero potesse avere questo effetto sulle persone. Cambiarle probabilmente sì, ma migliorarle, questo no.
Cinica? Pessimista? Non direi. Semplicemente realista o forse un po’ lungimirante tanto da comprendere, già dopo le prime settimane di lockdown, che la reclusione forzata avrebbe solo ampliato, oltre alla povertà e al malessere delle fasce più deboli della popolazione, anche la frustrazione, il rancore, la diffidenza di quanti già non erano portati per l’empatia e il rispetto verso il prossimo.
Per pura casualità, all’inizio di marzo avevo appena terminato di rileggere “Cecità” di Saramago e durante le interminabili giornate di solitudine dentro le quattro mura domestiche non ho potuto fare a meno di ripensare ad alcuni passaggi del libro. “E’ di questa pasta che siamo fatti, metà di indifferenza e metà di cattiveria”, una delle frasi che mi tornava frequentemente in testa quando notavo alcuni atteggiamenti, in qualche modo per me annunciati.
Sapevo perfettamente che tante persone – non tutte e non la maggior parte per fortuna – che si riempivano la bocca e le bacheche social con arcobaleni, preghiere, applausi per i medici, commozione per le vittime, collette per gli ospedali, allo stesso tempo riservavano il loro veleno per il “detestato” di turno.
Prima sono stati i cinesi, “rei” di aver portato il virus per il mondo. Poi gli sportivi, che andavano additati, screditati e puniti perché invece di stare chiusi in casa se ne andavano a correre al parco. Poi i vicini di casa, ai quali qualcuno ha iniziato a contare le uscite per la spesa settimanale. Finito l’isolamento collettivo è iniziata poi la lotta contro un’altra categoria di persone: i giovani, poco rispettosi, troppi assembrati, privi di scrupolo. Da lì si è passati a puntare il dito contro chi partiva per le vacanze, con particolare ossessione nei confronti di coloro che andavano all’estero. Dalla Grecia, la Spagna o Malta, l’attenzione si è poi spostata sulla nostra Sardegna. Gli haters hanno concentrato in particolare la loro rabbia nei confronti dei vip e dei ricchi, colpevoli di aver fatto baldoria in Costa Smeralda e di aver riportato il virus a casa.
Personaggi della politica, del jet set, dello sport, della musica o della moda sono quotidianamente messi alla berlina sui social a causa del loro contagio e c’è chi mostra addirittura entusiasmo quando un “tamponato” vip risulta positivo. Del resto, “se l’è andata a cercare”, è il mantra che viene ripetuto ossessivamente sui social. Lungi da me il voler giustificare alcuni atteggiamenti irresponsabili e contrari a ogni più basilare norma anti-contagio, ma la cattiveria gratuita, la soddisfazione davanti alla sofferenza altrui è proprio troppo distante da me per essere concepita, tollerata, giustificata.
“Ne usciremo migliori”, dicevano. E invece, per l’ennesima volta, “Homo homini lupus” ha prevalso su “Andrà tutto bene”.
Il direttore
Sono nata ad Avezzano (L’Aquila) sotto il segno dell’acquario, il 18 febbraio 1981, e dal 2009 vivo a Montesilvano (Pescara). Socievole, chiacchierona e curiosa dalla nascita, ho assecondato questa naturale inclinazione laureandomi a 24 anni in Scienze della Comunicazione a Perugia e scegliendo il giornalismo come ragione di vita prima ancora che come professione. Dopo diverse esperienze come giornalista di carta stampata e televisiva, dal 2012 mi occupo di cronaca per il quotidiano abruzzese il Centro, oltre a curare diversi progetti come freelance. Tra le mie più grandi passioni, oltre alla scrittura, ci sono i viaggi, la fotografia e il cinema, che nel 2011 mi hanno portato a realizzare, come coautrice, un documentario internazionale sulla figura della donna nell’area del Mediterraneo. Dall’estate 2015 ho il privilegio di dirigere il portale Felicità pubblica. Indipendente, idealista e sognatrice, credo nella famiglia, nell’amore, nell’amicizia e nella meritocrazia e spero in un futuro lavorativo migliore per i giovani giornalisti che, come me, preferiscono tenere i sogni in valigia piuttosto che chiuderli in un cassetto.
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