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Primo Maggio senza lavoro

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Dopo il 25 Aprile “virtuale”, un Primo Maggio con le piazze vuote. La pandemia costringe tutti in casa, anche nel giorno di festa. Ma, in definitiva, questo è l’ultimo dei problemi. La questione vera è che quest’anno abbiamo un Primo Maggio senza lavoro.

La fase due sarà, necessariamente, all’insegna della prudenza e della gradualità. Le fabbriche e gli uffici tardano a ripopolarsi. Molti scalpitano, in prima fila i governatori zelanti, ma non mancano industriali frettolosi (non tutti per la verità), imprenditori preoccupati per il futuro, lavoratori alle prese con redditi falcidiati: ognuno ha ottime ragioni. Eppure il rischio di una recrudescenza del contagio è alto e di certo non possiamo permetterci una disastrosa ricaduta. Lascerebbe sul campo altre migliaia di vittime e darebbe davvero il colpo definitivo alla nostra fragilissima economia.

Ma il Primo Maggio, si sa, è tempo di riflessioni sul lavoro. Quest’anno più che mai. La crisi rischia di determinare una fortissima contrazione occupazionale. Molte attività non riprenderanno dopo la forzata interruzione. Altre stenteranno. I tassi di occupazione, già molto bassi, si ridurranno ulteriormente. Cambieranno le modalità di erogazione delle prestazioni lavorative. Le fabbriche dovranno migliorare gli standard di sicurezza, il commercio, i pubblici esercizi, l’artigianato dovranno superare la prova del distanziamento sociale. Tutti i settori, a partire dalla Pubblica Amministrazione, faranno i conti con modalità di lavoro a distanza.

Grandissime trasformazioni all’orizzonte. Inutili polemiche e propaganda. Non ha del tutto torto il presidente in pectore della Confindustria Bonomi quando dichiara che in Italia circola ancora un “atteggiamento antindustriale”, ma ora questa “sentenza” non aiuta a fare passi in avanti. Dobbiamo cambiare registro sul tema del lavoro, radicalmente. Siamo attesi da sfide immense. Possiamo affrontarle solo restituendo centralità, valore e dignità al lavoro, a quel decisivo impegno umano che si incarna nei mille diversi lavori che vediamo attorno, da quello di cura alla logistica, dalla pubblica amministrazione ai call center, dall’artigianato alla grande industria, dal turismo
alla sanità. Grandi e piccoli lavori, generici e specializzati, stabili e temporanei, tutti hanno bisogno di considerazione e rispetto. E dovremmo aver capito, ormai, che la precarietà uccide la qualità e la competitività e, quindi, dobbiamo assolutamente ridurne la portata.

In questi giorni ripetiamo ossessivamente “Andrà tutto bene”, “Niente sarà più come prima”, “Siamo tutti nella stessa barca”, ma sappiamo bene che questa è retorica. Questo Primo Maggio impone uno straordinario accordo tra le forze del lavoro e le Istituzioni. La pandemia ha sfatato un altro mito degli ultimi anni: la disintermediazione. E’ vero l’esatto contrario. Abbiamo estremo bisogno di corpi intermedi, di soggetti che evitino la frammentazione della rappresentanza. Il rilancio del Paese necessita del protagonismo dei sindacati e delle associazioni imprenditoriali, in uno sforzo comune con le Istituzioni, per disegnare il futuro e costruire consenso su nuovi progetti.

E, giacché parliamo di lavoro, non dimentichiamo per cortesia il cosiddetto lavoro irregolare. Lo hanno sottolineato qualche giorno fa economisti, giuristi, virologi. E’ tempo di regolarizzare gli immigrati irregolari, non solo quelli che lavorano in agricoltura ma anche quelli che operano “in tutti gli altri settori economici del Paese e, in primis, in quelli cruciali dei servizi alla persona, dell’artigianato, dell’industria e dei servizi ad essa collegati”.

E’ tempo di gesti saggi e coraggiosi. Buon Primo Maggio a tutti.

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