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Ci mancava solo il Coronavirus. Non bastava il razzismo nei confronti delle persone dalla pelle scura, l’odio contro gli ebrei, la repulsione verso gli immigrati, ora il nemico pubblico numero uno è diventata la Cina. Anzi no, i cinesi.
Da quando il nuovo virus ha iniziato a generare terrore nel lontano Oriente per poi piano piano avvicinarsi sempre di più a “casa nostra”, fino a sbarcare all’ospedale Spallanzani di Roma, ne ho lette e sentite davvero di tutti i colori. “I cinesi sono sporchi”, “i cinesi mangiano qualsiasi cosa che si muove”, “abbiamo fatto male a farli venire”, “ci uccideranno tutti”, fino ad arrivare addirittura a pronunciare parole da brivido come “meglio così, sono troppi”, “magari è la volta buona che spariscono”, “meritano epidemie”, “non dovrebbero permettergli di stare nei paesi civili”. Esagerazioni? Mi piacerebbe rispondervi di sì, ma purtroppo vi garantisco che sono tutte frasi che ho letto o sentito davvero.
Ho più volte parlato della violenza sul web, di quanto nascondersi dietro a un monitor e a un nickname renda “forti” i più vigliacchi, di come una fake news possa trovare nei social network una cassa di risonanza tale da perdere qualsiasi controllo. Così come sono consapevole che, fortunatamente, esistono milioni di persone nel nostro Paese che la pensano esattamente come me e che non si sognerebbero mai di sparare a zero su una popolazione solo perché è stata, suo malgrado, colpita da una brutta epidemia.
Ma la colpa, come sempre, non è di un virus o della psicosi che questo possa arrivare in Italia e causare vittime. La colpa, anche in questo caso, è dell’ignoranza. L’ignoranza di chi punta il dito contro un popolo solo perché ha delle abitudini alimentari diverse dalle nostre, senza pensare che per qualche altro popolo siamo noi quelli strani o incivili, perché magari mangiamo una mucca o un maiale. O l’ignoranza di chi teme di mandare a scuola il proprio figlio solo perché nella sua classe c’è un bambino con gli occhi a mandorla che magari ha visto la Cina solo su un mappamondo.
Quello che maggiormente mi spaventa, però, è che questa ignoranza ha già iniziato a sfociare in episodi di violenza o di razzismo reali. E’ di questi giorni la notizia che due cittadini cinesi di 28 e 25 anni sono stati aggrediti in strada, a Torino, da ignoti che gli gridavano contro “avete il coronavirus, dovete andarvene di qua”. Così come ormai non si contano più i cartelli affissi fuori ai bar in cui si legge che i cinesi non sono graditi, o i taxi e gli hotel che rifiutano clienti orientali. Per non parlare dei ristoranti orientali che in queste settimane stanno letteralmente facendo la fame, perché se fino a ieri mangiare il sushi (con tanto di foto pubblicata sui social) “faceva figo”, vuoi mettere il rischio di beccarsi il Coronavirus? Dopotutto sono cinesi…fidarsi è bene, non fidarsi è meglio!
Del resto, come diceva Voltaire: “È ben difficile, in geografia come in morale, capire il mondo senza uscire di casa propria”.
Il direttore
Sono nata ad Avezzano (L’Aquila) sotto il segno dell’acquario, il 18 febbraio 1981, e dal 2009 vivo a Montesilvano (Pescara). Socievole, chiacchierona e curiosa dalla nascita, ho assecondato questa naturale inclinazione laureandomi a 24 anni in Scienze della Comunicazione a Perugia e scegliendo il giornalismo come ragione di vita prima ancora che come professione. Dopo diverse esperienze come giornalista di carta stampata e televisiva, dal 2012 mi occupo di cronaca per il quotidiano abruzzese il Centro, oltre a curare diversi progetti come freelance. Tra le mie più grandi passioni, oltre alla scrittura, ci sono i viaggi, la fotografia e il cinema, che nel 2011 mi hanno portato a realizzare, come coautrice, un documentario internazionale sulla figura della donna nell’area del Mediterraneo. Dall’estate 2015 ho il privilegio di dirigere il portale Felicità pubblica. Indipendente, idealista e sognatrice, credo nella famiglia, nell’amore, nell’amicizia e nella meritocrazia e spero in un futuro lavorativo migliore per i giovani giornalisti che, come me, preferiscono tenere i sogni in valigia piuttosto che chiuderli in un cassetto.
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