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La Memoria in un Paese Spezzato

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È da poco passata la ricorrenza della deportazione del 16 ottobre 1943, quando a Roma vennero catturati e poi spediti nei campi di sterminio 1023 ebrei. L’impressione è che ci sia un progressivo, scientifico indebolimento della memoria storica che accompagna il ritorno di una retorica nazionalista e lo sdoganamento della discriminazione del “diverso”.

Le cronache raccontano di quotidiani atti di razzismo e omo-transfobia, che sono protagonisti di campagne elettorali come quella in Umbria o avvelenano metropoli come Roma, dove si è arrivati al punto di licenziare dalla scuola paritaria una giovanissima e preparatissima docente transessuale. I media veicolano attraverso i canali televisivi, giornali-spazzatura e social dominati da utenti fasulli l’idea che qualcuno debba venire prima degli altri, che il mondo si divida in “noi” e “loro”, dove il “noi” raggrupperebbe solo italiani, bianchi, cristiani ed etero. E dove “loro” – per acclamazione mediatica – si devono conformare, si devono nascondere, devono andare a casa loro, addirittura devono morire.

In questo contesto, viene spontanea la domanda se sia utile ricordare la deportazione e il conseguente assassinio di un migliaio di persone (sedici ebrei soltanto tornarono, di quei 1023). Perché il ricordo di quella mostruosità non si perpetua solo per onorare le vittime, ma anche e soprattutto per ammonire gli eredi dei carnefici e tutti coloro che in generale si nascondono nell’indifferenza. Con la memoria si chiede un ragionamento su cosa è giusto, si stimola una connessione tra passato, presente e futuro, si pone la questione del crimine assoluto, l’atto che è intrinsecamente criminale al di fuori di ogni moda, regola o contesto specifico.

In un’Italia in cui alcuni partiti politici utilizzano “ebreo” come insulto e come antonimia di “italiano”, ogni commemorazione degli orrori del nazifascismo rischia di restare in una bolla dell’opinione pubblica separata dal resto mediante una membrana impermeabile. Stiamo realizzando una realtà socioculturale in cui le persone si riconoscono e si capiscono soltanto all’interno di fazioni polarizzate, perché la storia e la memoria non costituiscono più un terreno comune. Sembra proprio che la scuola e l’informazione abbiano fallito il loro compito, per ripetute scelte politiche la prima e per assoluto disinteresse degli organismi di controllo la seconda, spazzando via la possibilità di ragionare collettivamente su quello che accade nel Paese e nelle sue vicinanze.

È facile intuire che queste bolle, questi frammenti di Paese, queste “folle” che derivano da un popolo che non c’è più, siano destinate a uno scontro sempre più conflittuale a meno che non ci si occupi, con urgenza e senza badare a spese, della cultura, della scuola e dell’imparzialità dell’informazione. Nell’attesa che si affronti questa situazione, su cui gli storici ci hanno sempre messo in guardia, bisogna aspettarsi di tutto, come l’indifferenza di fronte alle celebrazioni del 16 Ottobre o il plauso ignobile di fronte a uomini, donne e bambini annegati nel Mediterraneo, perché le cose possono solo andar peggio.

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