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Cara scuola, quanto mi costi? A poco meno di un mese dall’inizio del nuovo anno scolastico è tempo di fare due conti in tasca e vedere quanto il ritorno in aula dei nostri figli incida sul bilancio economico delle famiglie.
Secondo un’indagine effettuata da Tinedo.com, oltre ai libri e al materiale di cancelleria, i genitori spendono una cifra considerevole per l’abbigliamento dei loro figli. A settembre, in corrispondenza dell’apertura della scuola, in Europa sono stati acquistati in media più di 1.500 capi di abbigliamento per i bambini e ragazzi di età scolare. Ciò significa che solo il 25% degli abiti supera più di un anno scolastico. C’è addirittura una vera e propria lista di prodotti ritenuti indispensabili affinché il guardaroba dei figli sia impeccabile, una sorta di prontuario che, se seguito, assicura di avere un pargolo “alla moda”: 4 T-shirt, 3 pantaloni, 2 vestiti, 3 tute, 3 paia di scarpe sportive, 2 paia di scarpe “per tutti i giorni”, 3 maglioni, 2 cappotti. Un cambio look che fa invidia ai reali d’Inghilterra e che comporta una spesa considerevole non alla portata di tutti: capita spesso, ammettono i genitori intervistati, che si rinunci ad acquistare qualcosa per sé pur di far indossare al proprio figlio l’ultimissimo modello di calzatura pubblicizzato in tv dal calciatore.
Ma conta così tanto quel che si fa indossare al proprio ragazzo o bambino? Non per tutti l’abbigliamento impeccabile del figlio è una priorità. Inoltre la tendenza a comprare nuovi capi è riconducibile anche al fatto che in fase di crescita la vestibilità degli indumenti ha vita breve: il pantalone comprato un paio di mesi prima può diventare corto per Carlo che ha 13 anni.
Una tendenza positiva verso il consumo responsabile proviene però sul fronte dal reimpiego degli abiti: il 60% delle famiglie regala, se non vi sono fratelli più piccoli, i vestiti ormai stretti ad amici o conoscenti, ma solo il 34% degli intervistati dona gli abiti che non si utilizzano più a enti di beneficenza. Sembra inoltre che la tendenza a donare sia direttamente proporzionata all’aumento dell’età dei genitori: i più inclini a regalare capi alle associazioni caritatevoli sono le mamme e i papà di età compresa tra i 45 e i 55 anni, ma sono poi i genitori più giovani quelli maggiormente inclini a riutilizzare gli abiti o a passarli ai fratelli minori.
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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