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Commissione delle Nazioni Unite: contro i Rohingya fu genocidio

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Della situazione disperata del popolo dei Rohingya abbiamo più volte dato conto, per esempio in questo articolo che parlava della genesi della vicenda, oppure in quest’altro che spiegava i tentativi di rimpatrio di coloro che avevano trovato rifugio in Bangladesh e infine in quest’ultimo che sembrava aprire uno spiraglio alla giustizia.

Ma negli scorsi giorni una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite ha lanciato gravissime accuse nei confronti delle autorità del Myanmar, pubblicando un documento che riporta:  «Gli alti responsabili militari, compreso il capo di Stato maggiore, generale Min Aung Hlaing, devono essere processati per genocidio».

Le indagini sono state condotte da Marzuki Darusman, ex procuratore generale indonesiano, insieme a due esperti: una sengalese e un australiano. Nel loro rapporto è stato puntato il dito anche contro il generale birmano Soe Win che ha diretto due divisioni di fanteria – la trentatreesima e la novantanovesima – considerate colpevoli di crimini efferati come torture, uccisioni e stupri che hanno portato all’esodo dei Rohingya dalla regione del Rakine.

A causa di questi crimini e di queste violenze, il 25 agosto di un anno fa, oltre 700.000 persone fuggirono in Bangladesh, ma sottolinea l’organizzazione Medici Senza Frontiere : «Sommate alle oltre duecentomila persone che erano già scappate a seguito di precedenti ondate di violenza, sono oggi oltre 919mila i Rohingya che vivono nel distretto di Cox’s Bazar». E proprio recentemente MSF ha quantificato in circa 10.000 le persone della minoranza etnica musulmana uccise dall’esercito birmano dall’ottobre del 2016 a oggi.

Il rapporto delle Nazioni Unite, però, evidenzia che sono stati commessi dai militari altri crimini in altre zone del Paese, in particolare negli Stati di Kachin e Shan, ai danni di gruppi separatisti.

Naturalmente vengono attribuite responsabilità, seppure indirette, anche alla consigliera di Stato Aung San Suu Kyi,  già Nobel per la Pace nel 1991. Secondo l’Onu infatti, la leader birmana non avrebbe «utilizzato la propria posizione di capo del governo de facto, né la propria autorità morale, per contrastare e impedire i fatti».  Non solo: l’alto Commissario dell’Onu per i Diritti Umani  Zeid Ra’ad al Hussein ha calcato la mano affermando che la leader birmana avrebbe avuto il potere di intervenire, aggiungendo in un’intervista alla BBC:  «Avrebbe potuto almeno rimanere in silenzio o, ancora meglio, avrebbe potuto dimettersi. Non c’era bisogno che lei fosse il portavoce dell’esercito birmano, non doveva dire che le violenze sui Rohingya erano montate, parlando di disinformazione».

In ogni caso, da tempo si moltiplicano le azioni  da parte della comunità internazionale contro militari e dirigenti del Myanmar: per esempio sia l’Unione Europea che il Canada hanno proibito l’accesso sui propri territori a sette ufficiali dell’esercito birmano e anche gli USA hanno annunciato l’ostracismo nei confronti di tre generali birmani e di un comandante della polizia di frontiera.

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