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Quando abbiamo scoperto Franco Basaglia

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Ho incontrato il pensiero e l’azione di Franco Basaglia all’inizio degli anni settanta, quando frequentavo il liceo. Con alcuni amici avevo iniziato un’attività di volontariato in una struttura che in città tutti chiamavano “Casa di Riposo”. In realtà non c’erano soltanto persone anziane; un intero reparto era destinato ad accogliere giovani donne in condizioni più o meno gravi di disagio mentale. L’assistenza era accettabile, umana, per alcuni versi “misericordiosa”; l’intervento di sostegno e riabilitazione praticamente nullo.

Ricordo queste ragazze “sfortunate”, accompagnate dagli assistenti, percorrere qualche passeggiata al parco, nei mesi primaverili ed estivi. A volte anche noi eravamo con loro; a due a due, mano nella mano, una breve fila di strana umanità si offriva agli sguardi curiosi e pietosi dei “normali”. Nonostante fossimo molto giovani e abbastanza ingenui capimmo subito che c’era qualcosa che non andava. Eravamo in un’istituzione che, a suo modo, “segregava” persone con problemi di salute mentale. Con “compassione”, senza gli eccessi di violenza che caratterizzavano molti manicomi, tante ragazze venivano messe da parte, fuori dalla società.

Noi volontari vivevamo una contraddizione profonda. Indubbiamente portavamo nell’istituzione chiusa un pezzo di mondo esterno, rendevamo più vivaci e accettabili le condizioni di vita dei ricoverati. Allo stesso tempo, senza volerlo, eravamo la foglia di fico che copriva la disumanità del sistema. Dicevano: “vedete, non è un’istituzione segregante, tant’è che vengono molti volontari dall’esterno”. In realtà il nostro contributo era così limitato da non poter affatto incidere sull’organizzazione di quella struttura.

In ogni caso quello che vedevamo, l’esperienza che stavamo vivendo ci impose di riflettere, di studiare. Fu così che incontrammo gli scritti, le denunce, l’esperienza di Franco Basaglia e di molti altri medici e psichiatri. Leggemmo “L’Istituzione negata” e “La maggioranza deviante”. Si impressero negli occhi e nella mente le foto di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin pubblicate nel volume “Morire di classe”. Fummo costretti a crescere.

Da un lato ci scontrammo con un atteggiamento, largamente prevalente in città, che voleva solo nascondere la malattia mentale, ammantandola, nel migliore dei casi, di pietà, assistenza e buoni sentimenti. Dall’altro scoprimmo che in molte realtà italiane altri avevano già battuto la strada della denuncia pubblica e, soprattutto, avevano avviato la sperimentazione di nuovi percorsi terapeutici, abbandonando segregazione e violenza.

Nel nostro piccolo, discutemmo a fondo, con passione e, naturalmente, emersero posizioni diverse. Dopo un lungo travaglio, decidemmo di scrivere una lettera aperta alle istituzioni e alla città per denunciare una situazione di isolamento sociale e di vuoto terapeutico che il perbenismo dei tempi voleva continuare a ignorare. Fummo aiutati da amici più grandi, qualcuno con competenze già strutturate, altri impegnati negli studi universitari; tutti mostrarono grande rispetto per la responsabilità che un gruppo di giovani studenti era disponibile ad assumere.

Qualche tempo più avanti, anche a ragione di quella nostra denuncia, alcuni politici illuminati riuscirono a portare in città Franco Basaglia per una conferenza. Un gran numero di persone venne ad ascoltare lo psichiatra veneto, molte più di quelle attese. Non era ancora arrivato il 1978, la chiusura dei manicomi sembrava ancora lontana, ma si percepiva distintamente che qualcosa stava per cambiare. Basaglia, in particolare, sembrava rendere possibile il miracolo di tenere insieme posizioni radicali e dialogo con le istituzioni, portando avanti un’opera di persuasione di cui sono capaci solo i grandi innovatori.

Siamo cresciuti in quel clima, abbiamo imparato molto da quell’esperienza. Ciascuno di noi ha preso la propria strada nello studio e nella professione. Qualcuno ha frequentato medicina ed è diventato psichiatra. Per tutti Basaglia è stato un maestro.

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