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Italia sprecona? Pare proprio di no: secondo il Food Sustainability Index, creato da Fondazione Barilla e The Economist Intelligence Unit, il nostro Paese si posiziona al quarto posto nella lotta agli sprechi alimentari.
Ciononostante ogni anno, in Italia, finiscono nella spazzatura 145kg di cibo: ancora troppi. C’è dunque da lavorare ma i passi avanti compiuti dal Paese sono apprezzabili e manifestano il successo di politiche volte a ridurre gli sprechi a livello industriale. Una buona soluzione per evitare che il cibo diventi rifiuto sarebbe semplificare le procedure, troppo spesso macchinose, per donare le eccedenze o i prodotti invenduti.
Nei punti vendita, in Italia, frutta e ortaggi sono i cibi più gettati: da soli, rappresentano uno spreco pari a più di 73 milioni di metri cubi d’acqua vale a dire 36,5 miliardi di bottiglie da 2 litri. Proprio per questo la filiera agro-alimentare si sta impegnando a evitare eccedenze e i risultati non si sono fatti attendere: nel giro di un anno, dal 2016 al 2017, si è passati dal 3,58% al 2,3% del cibo gettato.
Per quanto riguarda gli sprechi domestici, diminuiti già del 40% nel solo 2017, occorre che i consumatori adottino strategie mirate, come abituarsi a fare una spesa oculata e ragionata, controllare sempre la scadenza di quel che si acquista e tener presente che, con un po’ di fantasia, dagli scarti alimentari si posso reinventare proposte culinarie che non hanno nulla da invidiare alle “canoniche” pietanze.
Rimane un dato: secondo quanto rilevato dalla BCFN, attualmente in Europa il 42% di quel che si compra finisce nella spazzatura perché andato a male o scaduto prima ancora di essere consumato. Oggi, 5 febbraio, è la Giornata Nazionale contro lo Spreco Alimentare: occorre riflettere sulla questione tenendo bene a mente che, affinché le cose cambino, c’è bisogno di un cambiamento culturale che riguardi, in prima istanza, il proprio modo di fare.
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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