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Si chiama Libere dolcezze la nuova merendina oggi acquistabile in un’edicola situata nei pressi del Colosseo ma che presto sarà disponibile in molti ospedali della Capitale.
Il dolce, un fagottino di pastasfoglia farcito con crema di cioccolato e latte, è il coronamento di un sogno iniziato qualche mese fa quando, all’interno delle mura dell’Istituto penale per minorenni di Casal del Marmo a Roma, ad alcuni giovani è stata data la possibilità di seguire un corso di pasticceria. In cinque mesi i ragazzi hanno appreso i segreti dell’arte pasticciera fino a creare un proprio prodotto dolciario, il fagottino per l’appunto, che è stato presentato qualche giorno fa al presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, al direttore generale della Asl Roma 1, Angelo Tanese, e al capo del dipartimento di Giustizia Minorile, Gemma Tuccillo.
Grande la gioia espressa delle istituzioni, mentre irrefrenabile è stato l’entusiasmo dei ragazzi coinvolti nell’iniziativa: «E’ stato bellissimo fare il corso di pasticceria», affermano molti, «non pensavamo di arrivare fino a questo punto. La soddisfazione è tanta: siamo orgogliosi di noi».
Utilizzare il mondo della cucina per riabilitare i detenuti è un sistema che si è rivelato vincente anche in altre occasioni. Nel carcere di Busto Arsizio (Varese), ad esempio, è dal 2010 che l’amministrazione penitenziaria lavora con successo a Dolci Libertà: il progetto prevede la creazione di un ampio assortimento di dolciumi tutti rigorosamente realizzati dai detenuti della casa circondariale lombarda che, aderendo all’iniziativa, hanno la possibilità di rendere meno faticoso il periodo di detenzione, ricevono una piccola retribuzione per quanto fatto all’interno del laboratorio dolciario e, cosa più importante, hanno la concreta occasione di apprendere un mestiere e di capire il valore che deriva dal lavoro onesto.
E pensare che c’è chi dice che i dolci facciano male!
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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