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L’udito, l’olfatto e la vista sono i primi sensi che investono colui che passeggia tra le vie di Porta Palazzo. Conosciuto soprattutto per il suo mercato, il più grande d’Europa tra i mercati all’aperto, la zona torinese è da sempre luogo d’incontro e di folklore tra culture differenti. La sua essenza, non a caso, si fonda proprio sulla diversità: eterogeneo e cangiante, esprime la sua natura multietnica da un lato, attraverso lo scambio di prodotti d’ogni genere, dall’altro, attraverso il contatto tra culture lontane.
Sarebbe dunque sbagliato, o quantomeno riduttivo, considerare Porta Palazzo unicamente come zona del mercato, specialmente adesso che il quartiere del capoluogo piemontese è oggetto di un’iniziativa volta a migliorarlo. L’idea di riqualificare l’area di Porta Palazzo è di YEPP Italia (Youth Empowerment Partnership Programme): un’associazione avente come obiettivo il benessere della cittadinanza giovanile che frequenta aree urbane socialmente complesse. Facendoli partecipare attivamente ai progetti per la comunità, i ragazzi hanno la possibilità di diventare protagonisti di un cambiamento che investe, in primo luogo, il territorio in cui vivono ma che ha, in secondo luogo, anche ricadute su loro stessi. Spesso – complici barriere economiche, sociali e relazionali – alle nuove generazioni manca l’opportunità di comprendere quali talenti possiedono: rendere i giovani protagonisti della riqualificazione del territorio diviene, dunque, un’occasione unica che consente ai ragazzi di far luce sulle proprie abilità individuali e, allo stesso tempo, li rende cittadini responsabili attraverso azioni di volontariato tese all’abbellimento del quartiere.
«Chi frequenta YEPP Porta Palazzo rompe lo stereotipo del giovane fannullone», afferma Andrea che vive nel quartiere da quattro anni. «C’è tanta voglia di fare e di mettersi in gioco. Siamo intraprendenti e vi stupiremo!». L’energia di Andrea manifesta a pieno lo spirito di questo gruppo in cerca di forme d’aggregazione virtuose che esaltino la bellezza del contatto umano.
E’ come un gioco ma occorre farlo senza riserve: esercitandosi a praticare il valore dell’accoglienza, a spazzare i pregiudizi e a condividere con passione l’obiettivo comune di cambiare il proprio quartiere, ci si ritroverà, senza accorgersene, ad aver migliorato anche sé.
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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