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Non è un Pese per giovani il nostro, e questo la sapevamo, ma che non fosse nemmeno per giovanissimi ancora l’ignoravamo. Eppure nella nostra cara Italia le cose non funzionano su tanti, troppi, fronti: l’ultima “bella notizia” arriva dritta dritta dagli asili nido.
Avete presente quei posti tanto carini pieni di giochi e bambini urlanti che tra le numerose attività delle maestre permettono ai nostri figli di trascorrere ore piacevoli e a noi genitori di lavorare con relativa tranquillità? Be’ scordateveli, soprattutto se a fine mese ci arrivate a stento e se, in questo caso ahimè, vivete nelle province di Chieti, Roma e Venezia. Perché? Perché le tariffe dei nido sono in aumento!
Le famiglie italiane normalmente spendono in media 301 euro al mese per la retta degli asili nido, senza contare quegli 80 euro della mensa. Certo, ogni territorio offre un prezzo differente: la retta di Agrigento e Catanzaro è di appena 100 euro ma il prezzo non comprende le spese necessarie per l’infante – e i pannolini? Cari genitori portateveli da casa! – mentre Lecco, da tre anni, “vanta” il primato di città più costosa con una tariffa di 517 euro che è comunque in ribasso rispetto ai 572 euro del 2005 (che fortuna!).
Con una famiglia di tre persone di cui un minore al di sotto dei 3 anni e un Isee di 19.900 euro, il Molise è la regione con la retta più economica: 167 euro. Il Trentino Alto Adige la più costosa: 472 euro. Si registra poi un aumento del 10 per cento in Basilicata ma, le crescite più rilevanti, nelle ultime tre stagioni, sono state a Chieti (+50,2 per cento), Roma (+33,4 per cento) e Venezia (+24,9 per cento).
A peggiorare la questione piovono addosso i dati forniti dall’ultimo rapporto di Cittadinanzattiva, “Servizi in… Comune. Tariffe e qualità di nidi e mense” che denunciano anche un altro, pesantissimo, ostacolo: l’aumento delle liste d’attesa per far entrare il bambino al nido. Risultato?
Nel corso del 2016, su trentamila donne che hanno dato le dimissioni dal posto di lavoro, una su cinque l’ha fatto per il mancato accoglimento dei figli al nido pubblico, quasi una su quattro per incompatibilità tra lavoro e assistenza al bimbo, il cinque per cento per i costi elevati dell’assistenza al neonato (dati dell’Ispettorato nazionale del Lavoro).
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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