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Leggendo il programma della prima edizione del Festival del Futuro Sostenibile (a proposito, forse potremmo chiamare “futuro sostenibile” questa pagina di approfondimento), ho avuto modo di vedere che, tra gli ospiti, era prevista la presenza del presidente del Movimento per la Decrescita Felice, Jean Louis Aillon. Come tanti altri ho avuto modo di avvicinarmi al tema della decrescita in diverse occasioni e attraverso più letture e non nascondo di aver maturato qualche diffidenza. Tuttavia non avevo mai incontrato l’esperienza del Movimento e, quindi, sono stato preso dalla curiosità di andare a consultare le loro pagine web.
Devo dire che, fin dalle prime battute, ho avuto la sensazione di essermi imbattuto in una vicenda di estremo interesse. L’interpretazione della decrescita come pauperismo e privazione mi è sempre apparsa antistorica e regressiva; sono interessato, invece, a conoscere riflessioni e pratiche che aiutino a riconquistare maggiore sobrietà, stili di vita caratterizzati dalla ricerca di senso e orientati a recuperare la dimensione “essenziale” delle cose. Ad esempio, mi ha molto colpito la scelta dell’associazione Mani Tese di inserire nella propria mission un paragrafo dedicato a “Sobrietà e stili di vita sostenibili”. Nel testo si legge: “Il valore e la pratica della sobrietà sono segni di condivisione con gli esclusi e scelta sociale necessaria per uno sviluppo sostenibile sotto il profilo economico, politico e ambientale”.
Mi sembra di trovare nell’identità del Movimento per la Decrescita Felice una sensibilità analoga. La ricerca di essenzialità, appunto, fa sostenere che la decrescita è il rifiuto razionale di ciò che non serve; il rigore del ragionamento porta ad affermare che non si può “identificare il nuovo col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di cesure, la conservazione con la chiusura mentale”. Scelte difficili, impopolari, che non concedono nulla alle mode e richiedono posizioni rigorose e coerenti.
Ma c’è un altro aspetto che attira la mia attenzione. Questa interpretazione della decrescita è orientata alla felicità. Se non ho inteso male la decrescita libera energie inutilmente orientate al consumo di merci che non soddisfano autentici bisogni, per restituire spazio alle relazioni tra le persone, alla valorizzazione dei beni comuni, alle attività creative. Sembra essere questa la chiave della felicità nella decrescita.
Quest’uso del concetto di felicità ci suggerisce di tornare all’etimologia della parola; “felix” ha la stessa radice di “fecundus”, cioè fertile, prolifico, produttivo, che feconda. Con qualche azzardo potremmo sostenere che la decrescita, liberandoci da ciò che ci “appesantisce” perché non essenziale, senza senso, è in grado di generare nuova fertilità, nuovi frutti da curare nella comunità, nell’incontro e nella relazione tra le persone.
Per queste ragioni penso che dovremo riflettere con attenzione a quanto ci hanno raccontato e ci racconteranno gli amici del Movimento per la Decrescita Felice. Per queste ragioni mi permetto di estrarre dal loro sito la pagina intitolata “La Decrescita Felice?”, per proporla all’attenzione dei lettori di Felicità Pubblica.
La Decrescita Felice?
La decrescita non è soltanto una critica ragionata e ragionevole alle assurdità di un’economia fondata sulla crescita della produzione di merci, ma si caratterizza come un’alternativa radicale al suo sistema di valori. Nasce in ambito economico, lo stesso ambito in cui è stata arbitrariamente caricata di una connotazione positiva la parola crescita, ma travalica subito in ambito filosofico. È una rivoluzione culturale che non accetta la riduzione della qualità alla quantità, ma fa prevalere le valutazioni qualitative sulle misurazioni quantitative. Non ritiene, per esempio, che la crescita della produzione di cibo che si butta, della benzina che si spreca nelle code automobilistiche, del consumo di medicine, comporti una crescita del benessere perché fanno crescere il prodotto interno lordo, ma li considera segnali di malessere, fattori di peggioramento della qualità della vita.
La decrescita non è la riduzione quantitativa del prodotto interno lordo. Non è la recessione. E non si identifica nemmeno con la riduzione volontaria dei consumi per ragioni etiche, con la rinuncia, perché la rinuncia implica una valutazione positiva di ciò a cui si rinuncia. La decrescita è il rifiuto razionale di ciò che non serve. Non dice: «ne faccio a meno perché è giusto così». Dice: «non so cosa farmene e non voglio spendere una parte della mia vita a lavorare per guadagnare il denaro necessario a comprarlo». La decrescita non si realizza sostituendo semplicemente il segno più col segno meno davanti all’indicatore che valuta il fare umano in termini quantitativi.
La decrescita si propone di ridurre il consumo delle merci che non soddisfano nessun bisogno (per esempio: gli sprechi di energia in edifici mal coibentati), ma non il consumo dei beni che si possono avere soltanto sotto forma di merci perché richiedono una tecnologia complessa (per esempio: la risonanza magnetica, il computer, ma anche un paio di scarpe), i quali però dovrebbero essere acquistati il più localmente possibile. Si propone di ridurre il consumo delle merci che si possono sostituire con beni autoprodotti ogni qual volta ciò comporti un miglioramento qualitativo e una riduzione dell’inquinamento, del consumo di risorse, dei rifiuti e dei costi (per esempio: il pane fatto in casa). Il suo obbiettivo non è il meno, ma il meno quando è meglio. In un sistema economico finalizzato al più anche quando è peggio, la decrescita costituisce l’elemento fondante di un cambiamento di paradigma culturale, di un diverso sistema di valori, di una diversa concezione del mondo. È una rivoluzione dolce finalizzata a sviluppare le innovazioni tecnologiche che diminuiscono il consumo di energia e risorse, l’inquinamento e le quantità di rifiuti per unità di prodotto; a instaurare rapporti umani che privilegino la collaborazione sulla competizione; a definire un sistema di valori in cui le relazioni affettive prevalgono sul possesso di cose; a promuovere una politica che valorizzi i beni comuni e la partecipazione delle persone alla gestione della cosa pubblica. Se per ogni unità di prodotto diminuisce il consumo di risorse e di energia, se si riducono i rifiuti e si riutilizzano i materiali contenuti negli oggetti dismessi, il prodotto interno lordo diminuisce e il ben-essere migliora. Se la collaborazione prevale sulla competizione, se gli individui sono inseriti in reti di solidarietà, diminuisce la necessità di acquistare servizi alla persona e diminuisce il prodotto interno lordo, ma il ben-essere delle persone migliora. Se si riduce la durata del tempo giornaliero che si spende nella produzione di merci, aumenta il tempo che si può dedicare alle relazioni umane, all’autoproduzione di beni, alle attività creative: il prodotto interno lordo diminuisce e il ben-essere migliora.
“La decrescita
La decrescita è elogio dell’ozio, della lentezza e della durata; rispetto del passato; consapevolezza che non c’è progresso senza conservazione; indifferenza alle mode e all’effimero; attingere al sapere della tradizione; non identificare il nuovo col meglio, il vecchio col sorpassato, il progresso con una sequenza di cesure, la conservazione con la chiusura mentale; non chiamare consumatori gli acquirenti, perché lo scopo dell’acquistare non è il consumo ma l’uso; distinguere la qualità dalla quantità; desiderare la gioia e non il divertimento; valorizzare la dimensione spirituale e affettiva; collaborare invece di competere; sostituire il fare finalizzato a fare sempre di più con un fare bene finalizzato alla contemplazione. La decrescita è la possibilità di realizzare un nuovo Rinascimento, che liberi le persone dal ruolo di strumenti della crescita economica e ri-collochi l’economia nel suo ruolo di gestione della casa comune a tutte le specie viventi in modo che tutti i suoi inquilini possano viverci al meglio”. (Maurizio Pallante)
Sono nato a Pescara il 18 settembre 1955 e vivo a Francavilla al Mare con mia moglie Francesca e i miei figli Camilla e Claudio. Ho una formazione umanistica, acquisita frequentando prima il Liceo Classico G.B. Vico di Chieti e poi l’Università di Padova, dove mi sono laureato in Filosofia con Umberto Curi. Il primo lavoro è stato nella cooperazione: un’esperienza che ha segnato il mio futuro. Lì ho imparato a tenere insieme idealità e imprenditorialità, impegno individuale e dimensione collettiva, profitto e responsabilità. Negli anni seguenti ho diretto un’agenzia di sviluppo locale e promozione imprenditoriale, sono stato dirigente in un ente locale, ho lavorato come consulente anche per importanti aziende globali. Oggi sono presidente di una start up cooperativa: evidentemente i grandi amori tornano di prepotenza, quando meno te lo aspetti. Nel lavoro mi piace condividere progetti, costruire percorsi inediti, fare squadra, veder crescere giovani professionalità. Amo leggere e ascoltare musica, camminare in montagna e, appena possibile, intraprendere un nuovo viaggio.
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