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#FilieraSporca

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Il 14 novembre abbiamo dato notizia dell’approvazione alla Camera del Ddl contro il caporalato e della soddisfazione manifestata dalle associazioni promotrici e sostenitrici della campagna #FilieraSporca, Terra! Onlus, daSud e Terrelibere (leggi l’articolo). Il Disegno di Legge 1138 contiene, infatti, la confisca e la responsabilità in solido per le aziende che sfruttano i lavoratori nei campi attraverso il caporalato, così come chiesto da Filiera Sporca al Ministro dell’agricoltura, Martina e al Governo. Un’importante novità avvenuta dopo il sì al testo di riforma del codice antimafia, che prevede l’allargamento della responsabilità penale non solo al caporale ma anche alle aziende che ne traggono diretto vantaggio.

Ma chi sono i promotori della campagna #FilieraSporca?

Terra Onlus (www.terraonlus.it) è un’Associazione ambientalista “che mette in rete esperienze, idee, persone, gruppi e associazioni che condividono la volontà di difendere l’ambiente e il territorio”. Terrelibere.org (www.terrelibere.org), nasce nel 1999, e si occupa di inchieste e ricerche sui rapporti tra Nord e Sud del Mondo, sulla mafia, sulle migrazioni, sull’economia e la disuguaglianza. daSud (www.dasud.it) è un’associazione di promozione sociale e antimafia calabrese impegnata in “percorsi di giustizia sociale” per contrastare i clan e “ricostruire l’antimafia popolare”.

La campagna #FilieraSporca vuole portare a evidenza “il percorso dei frutti dai campi agli scaffali dei supermercati. Le arance rosse dell’Etna esportate in tutto il mondo, il biondo calabrese mischiato col succo brasiliano che finisce nelle lattine delle multinazionali, le clementine di Sibari portate nei banconi di tutta Italia”. Nel Rapporto che accompagna la comunicazione si sostiene che “il cuore della filiera è un ceto di intermediari che accumula ricchezza, organizza le raccolte usando i caporali, determina il prezzo. Impoverisce i piccoli produttori e acquista i loro terreni. Causa la povertà dei migranti e nega un’accoglienza dignitosa”.

Dopo la vittoria conseguita per “la responsabilità in solido dei committenti rimangono due grandi obiettivi da perseguire:

  1. “l’etichetta narrante. Conoscere i fornitori e quanti passaggi ci sono lungo la filiera. Una etichetta narrante che accompagni il consumatore verso una scelta consapevole sull’origine del prodotto ma anche sui singoli fornitori”
  2. “l’elenco dei fornitori. Rendere pubblico e consultabile l’elenco dei fornitori. Proponiamo l’obbligo di tracciabilità dei fornitori e trasparenza, rendendo pubblico e consultabile l’elenco dei fornitori delle aziende della filiera”.

Per conoscere meglio argomentazioni e obiettivi della campagna #FilieraSporca proponiamo un estratto della parte iniziale del Rapporto #FilieraSporca. Gli invisibili dell’arancia e lo sfruttamento in agricoltura nell’anno dell’Expo.

Per la lettura integrale del testo rinviamo all’indirizzo http://www.filierasporca.org/wp-content/uploads/2015/06/FilieraSporca01.pdf

 

Perché questa campagna?

 

La sfida mancata di Expo

“È possibile assicurare a tutta l’umanità un’alimentazione buona, sana, sufficiente e sostenibile?”

È con questa domanda che si apre Expo, l’Esposizione Universale di Milano 2015. Una domanda importante che avrebbe potuto offrire l’occasione per riflettere sul futuro di agricoltura e produzione del cibo, di come essere in grado di nutrire tutti senza deprivare il Pianeta delle risorse necessarie a farlo. E invece si sta dimostrando una sfida che, sin dal principio, mostra tutte le sue contraddizioni.

Nelle parole e nei fatti.

Nelle parole, quelle della Carta di Milano, che appaiono enunciazioni che di concreto hanno ben poco. Buone intenzioni, poche soluzioni.

Nei fatti, attraverso sponsorizzazioni, le più emblematiche quelle di McDonald’s e Coca-Cola, che legittimano un modello di produzione e consumo che è lontano dal poter risolvere le questioni aperte da Expo2015.

Ma è questo il modello di agricoltura che proponiamo?

Quando si parla di cibo si parla di modelli di produzione, sfruttamento delle risorse naturali, di sostenibilità, di accesso alla terra, di distribuzione, di filiere. E di lavoro. Perché ogni singolo prodotto presente sullo scaffale di un supermercato o sui banchi del mercato di quartiere, viene coltivato, trasformato e distribuito.

Se è vero, ad esempio, che McDonald’s ha fatto degli sforzi importanti per avvicinarsi a un modello di produzione che sostenesse il Made in Italy, stride il patrocinio del Ministero delle politiche agricole a un progetto che ha una forte portata in termini di marketing ma poco in termini reali.

McDonald’s infatti ha ricevuto il patrocinio del Ministero al progetto “Fattore Futuro”, che prevede la possibilità per venti agricoltori under 40 di diventare loro fornitori per tre anni. Un progetto molto forte in termini di comunicazione ma che nella realtà non inciderà in alcun modo nella filiera dell’azienda, per la quale i venti giovani agricoltori selezionati non potranno che soddisfare una piccolissima parte del fabbisogno.

Con la campagna per le #terrepubbliche ai giovani agricoltori abbiamo sempre sostenuto la necessità di valorizzare il patrimonio agricolo di questo Paese come opportunità per i giovani e per un’agricoltura sana e sostenibile, dove la filiera corta, il rapporto tra campagna e città diventassero elementi principali di un nuovo modello di agricoltura. Un modello in cui lo Stato, sia esso amministrazione comunale o nazionale, valorizza un patrimonio comune, sostiene i giovani e produce cibo di qualità. E invece ci stiamo dirigendo verso un modello in cui da una parte si vende il patrimonio pubblico fingendo che sia un incentivo per i giovani in agricoltura, dall’altra si valorizza il modello del cibo spazzatura, della grande distribuzione, dove i piccoli contadini spariscono lasciando spazio alla monocultura.


La filiera dello sfruttamento

Intanto, mentre viene celebrato l’Expo come una grande occasione per rilanciare il Made in Italy, intere filiere agricole sopravvivono grazie allo sfruttamento del lavoro.

Tutta l’Europa mediterranea produce in condizioni di grave sfruttamento i prodotti ortofrutticoli destinati in gran parte ai mercati del Nord. Il modello si sta estendendo e non risparmia regioni un tempo immuni come ad esempio il Piemonte. Quella che è stata trattata come un’emergenza umanitaria è in realtà il frutto di un vero e proprio sistema di produzione che in tutta l’Europa del Sud ha le stesse caratteristiche e che si nutre dello sfruttamento.

E quando il fenomeno è strutturale, è inutile riferirsi all’emergenza, perché è il prodotto di una filiera malata che scarica costi e disagi sul soggetto più debole, i braccianti, spesso migranti di origine africana o dell’Est Europa.

Eppure i migranti – così come i lavoratori italiani – schiavizzati sono l’effetto di un sistema malato. E ricostruire la filiera permette di mostrare il sistema, svelarne cause e meccanismi.

 

Un punto di vista diverso

Abbiamo scelto di fare una ricerca sulla filiera delle arance perché, tra le diverse filiere sporche, è un esempio importante che tiene insieme tante, troppe, contraddizioni. Una filiera parcellizzata fatta di innumerevoli passaggi, quasi mai trasparenti, in cui convivono il bracciante agricolo sfruttato e la multinazionale, la grande distribuzione e la criminalità organizzata. Una filiera basata sul trasporto su gomma e su un modello produttivo che è spesso dipendente dalla chimica.

Decine di inchieste, documentari, reportage, hanno raccontato cosa succede nei campi dello sfruttamento, le tendopoli, la schiavitù. Ma che fine fanno i prodotti raccolti in quei nei campi e qual è la responsabilità delle multinazionali, della grande distribuzione, dei commercianti, dei produttori, delle aziende di trasporti, delle agenzie internazionali di lavoro interinale?

È da questa domanda che nasce la campagna #FilieraSporca, con l’obiettivo di invisibili dello sfruttamento del lavoro in agricoltura, dalla grande distribuzione alle multinazionali.

La raccolta di diversi prodotti agricoli si affronta da anni con tendopoli, kit sanitari e container. Come un terremoto. L’uso di manodopera straniera sottopagata è un “modello” di produzione, non un’emergenza umanitaria.

Ma cosa produce il ghetto? Perché le stesse condizioni si ripropongono a Nord come a Sud, in zone ricche e in aree depresse? La narrazione sull’argomento – sia giornalistica che scientifica – non ha colto finora la vera causa del problema. Le condizioni di sfruttamento sono il prodotto di una filiera malata dove il livello superiore scarica su quello inferiore costi e disagi. Ecco che al primo stadio abbiamo gli operatori della grande distribuzione e le grandi aziende; quindi grandi e medi commercianti; infine medi e piccoli produttori; all’ultimo livello i braccianti, quasi sempre migranti.

Le informazioni sulla filiera sono scarse o nulle. Non sappiamo dove va a finire il pomodoro di Foggia o se l’aranciata che stiamo bevendo è prodotta con le arance di Rosarno. Né tantomeno se questi prodotti sono stati raccolti in condizioni di lavoro soggette a grave sfruttamento.

Le etichette sono opache. Le nuove norme approvate di recente non prevedono l’obbligo di indicare neppure lo stabilimento che ha confezionato i prodotti. In questo modo i consumatori non hanno strumenti per essere informati sull’eticità dei prodotti che consumano.

 Nell’anno di #Expo2015, #FilieraSporca dimostra che non si può “nutrire il pianeta” sfruttando il lavoro e l’agricoltura e ha l’ambizione di sollecitare istituzioni e imprese a impegnarsi in questa direzione.

 

Diverse filiere, stesse caratteristiche

Quella che a prima vista appare come un’emergenza umanitaria – ghetto di Rignano (Foggia), baraccopoli-tendopoli di Rosarno (Reggio Calabria), area di Saluzzo (Cuneo) etc. – è in realtà il frutto di un vero e proprio sistema di produzione che in gran parte dell’Europa del Sud ha le stesse caratteristiche:

  1. uso intensivo di manodopera migrante altamente ricattabile (a causa di status giuridici precari e assenza di diritti riconosciuti;
  2. situazioni abitative al di sotto degli standard minimi della dignità umana (tuguri fatiscenti, tendopoli senza riscaldamenti, baraccopoli, container…);
  3. bassa intensità di capitale e alta intensità di lavoro;
  4. “cultura imprenditoriale” basata sull’illegalità, con pervasive presenze
  5. necessità di forza lavoro molto flessibile, specie nelle raccolte (pomodoro, frutta, vendemmia) per brevi periodi di tempo;
  6. manodopera organizzata in squadre e capisquadra, con conseguente ricorso al caporalato;
  7. luoghi di lavoro estremi (serre, campagne isolate, spesso in stato di vera segregazione);
  8. violenza endemica: mancati pagamenti e minacce; aggressioni fisiche; razzismo violento di matrice criminale; riduzione in schiavitù; persino sfruttamento sessuale;
  9. filiera parcellizzata, difficile se non impossibile da ricostruire, di cui non si conoscono fornitori, costi, modalità di produzione.
Lavoro forzato
Mai più "massimo ribasso"

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