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Quanto è florido il mercato delle donazioni in Italia? Qual è la ragione che spinge oggi un cittadino a scegliere di sostenere un’associazione al posto di un’altra? E in che modo il cambio graduale di mentalità degli italiani può influire sull’attività di raccolta fondi?
Per cercare di dare una risposta a questi e altri quesiti, e per conoscere più in generale lo stato dell’arte delle donazioni nel Belpaese, Felicità Pubblica ha intervistato Paolo Anselmi, vice presidente di GfK Eurisko, docente di “Marketing Sociale e Non Profit” all’Università Cattolica di Milano e vincitore, nel 2006, del “Sodalitas Social Award” per il contributo dato alla diffusione della cultura della responsabilità sociale tra le imprese italiane.
Qual è, sulla base dei dati da voi elaborati, la fotografia che emerge delle donazioni in Italia?
Da più di 10 anni monitoriamo, regolarmente ogni anno, i comportamenti di donazione e quindi conosciamo il profilo dei donatori, i loro comportamenti, le loro scelte, le loro modalità di donazione, ecc. La situazione attuale è quella, purtroppo, di un calo progressivo del numero dei donatori che ha coinciso esattamente con l’inizio della crisi, quindi con il 2008. Nel corso degli ultimi 7 anni sono stati persi 7 punti percentuali, pari a circa 3 milioni e mezzo di persone che nel 2008 erano donatori e oggi non lo sono più. Eravamo a circa 1 italiano su 3 e ora siamo a meno di 1 su 4, e precisamente al 23,9% nell’ultimo anno. Questo calo è senz’altro un effetto della crisi, lo si capisce bene perché quelli che diminuiscono drasticamente sono i donatori saltuari, che non sono fidelizzati. Mentre tendenzialmente, chi è fedele a un’associazione, riduce magari l’importo donato, ma continua a donare. Un altro fenomeno che abbiamo osservato è che mentre in passato molti donatori erano fedeli ad alcune associazioni e donavano saltuariamente ad altre, oggi questo comportamento tende a ridursi e ci si concentra solo su quelle organizzazioni con cui esiste una relazione consolidata.
A tal proposito, quali sono i fattori che influenzano di più un donatore nella scelta di donare?
C’è una distinzione importante da fare, tra il sostegno che viene dato a organizzazioni che si occupano di fasce deboli, come anziani, bambini, malati, disabili, dove c’è una situazione di sofferenza umana. In questi casi c’è un fattore di empatia, talvolta un richiamo all’esperienza personale, una vicinanza che porta a essere sensibili a quel problema. In questi casi la motivazione è alleviare la sofferenza di chi è in una situazione di disagio. Diversa è la motivazione quando il donatore si propone, sostenendo un’organizzazione, di contribuire alla soluzione di un problema. E’ il caso della ricerca medico-scientifica, delle associazioni ambientaliste o di quelle che si occupano del patrimonio artistico. “Voglio contribuire a risolvere un problema che, in qualche modo, mi riguarda”, si dice. Nel primo caso il beneficiario è diverso da chi dona, quindi è un gesto di generosità, di carità in senso cristiano o di solidarietà in senso laico. Nel secondo caso, invece, la motivazione è quella di compiere un gesto di impegno civile di cui tutti in prospettiva potremo trarre beneficio.
Quali sono, invece, i fattori che spingono un donatore a scegliere una determinata organizzazione?
Nella scelta dell’organizzazione conta molto la percezione che quell’associazione stia contribuendo alla soluzione del problema in modo efficace, che impieghi bene le risorse che raccoglie e che possa anche mostrare i risultati ottenuti e i progetti che si propone di realizzare. Quindi è fondamentale l’elemento di concretezza, la capacità di unire lo slancio ideale e la dimensione etica, a una dimensione di concretezza, dimostrando che si sta operando in maniera efficace.
Quant’è importante, per un’organizzazione, saper restituire il giusto feedback al donatore?
Il fatto di restituire un giusto feedback, una rendicontazione, è fondamentale. In particolare può essere una scelta molto efficace quella di dare la parola a chi ha ricevuto l’aiuto. Si può essere altrettanto coinvolgenti, infatti, mostrando i risultati e non il problema, agendo con la stessa efficacia sul piano motivazionale del donatore. Dare feedback non significa solo mostrare i risultati ottenuti, significa anche ringraziare. Significa dare alle persone che hanno donato il senso dell’efficacia del loro gesto. Farle sentire parte di un processo positivo. L’organizzazione deve porsi come tramite efficace tra il donatore e i beneficiari della donazione.
Siamo nell’era della sharing economy. Qual è l’apporto che questo cambiamento culturale può dare alla beneficenza?
Sono convinto che noi stiamo vivendo un cambiamento molto profondo dal punto di vista culturale, allontanandoci sempre di più da una società individualistica, centrata sulla cultura dell’io. La rappresentazione del benessere che abbiamo condiviso e inseguito nei passati decenni era fondamentalmente una concezione individualistica, o almeno questo era il paradigma dominante. Oggi sta cambiando la cultura come dimostra il fatto che chi sceglie la sharing economy non lo fa solo per motivi economici, ma soprattutto di condivisione e di scambio. Stiamo andando verso una cultura che finalmente riconosce il valore del “noi” e che lo fa attraverso tante forme di condivisione e di scambio, scelte in particolare dalle fasce giovanili, che sottolineano che insieme si possono fare tante cose. Questo non si trasforma automaticamente in un aumento delle donazioni ma si traduce in una diversa cultura sociale. Nella rappresentazione che abbiamo del benessere, infatti, acquistano sempre più peso le dimensioni pubbliche e sociali.
Per concorrere alla felicità pubblica qual è, secondo lei, un elemento imprescindibile?
Credo che dal punto di vista del singolo ci sia un elemento importante che è quello di riconoscersi soggetti attivi. Non essere solamente cittadini che pretendono dalla politica, dalle aziende, dalla pubblica amministrazione, ma riconoscere quello che ciascuno di noi può fare per contribuire alla felicità pubblica. E questo non significa rinunciare a far valere i propri diritti; anzi, quanto più si è cittadini attivi e impegnati, tanto più si ha il diritto di pretendere che anche l’attore pubblico si comporti bene per la parte che gli compete. Questo significa anche avere comportanti di rispetto e di cura della cosa pubblica. E oggi anche su questo versante si colgono segnali positivi, per cui io sono fondamentalmente ottimista sull’evoluzione della nostra cultura sociale.
Sono nata ad Avezzano (L’Aquila) sotto il segno dell’acquario, il 18 febbraio 1981, e dal 2009 vivo a Montesilvano (Pescara). Socievole, chiacchierona e curiosa dalla nascita, ho assecondato questa naturale inclinazione laureandomi a 24 anni in Scienze della Comunicazione a Perugia e scegliendo il giornalismo come ragione di vita prima ancora che come professione. Dopo diverse esperienze come giornalista di carta stampata e televisiva, dal 2012 mi occupo di cronaca per il quotidiano abruzzese il Centro, oltre a curare diversi progetti come freelance. Tra le mie più grandi passioni, oltre alla scrittura, ci sono i viaggi, la fotografia e il cinema, che nel 2011 mi hanno portato a realizzare, come coautrice, un documentario internazionale sulla figura della donna nell’area del Mediterraneo. Dall’estate 2015 ho il privilegio di dirigere il portale Felicità pubblica. Indipendente, idealista e sognatrice, credo nella famiglia, nell’amore, nell’amicizia e nella meritocrazia e spero in un futuro lavorativo migliore per i giovani giornalisti che, come me, preferiscono tenere i sogni in valigia piuttosto che chiuderli in un cassetto.
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