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Leggendo il libro “Finanziare l’impresa con i fondi europei” – IPSOA – si ha una panoramica completa sugli strumenti e le opportunità 2014-2020 a sostegno delle PMI. Soffermandosi sul capitolo strumenti finanziari innovativi, riproponiamo alcuni spunti di riflessione relativamente al venture capital, strumento che si è evoluto nel corso degli anni con connotati nel passato differenti fra Stati Uniti ed Europa.
“Negli USA, il concetto di investimento istituzionale nel capitale di rischio, definito della sua globalità “attività di private equity”, è distinto, in funzione della tipologia di operatore che pone in essere il finanziamento, tra venture capital e buy out.
Alla prima categoria corrispondono due tipologie specifiche di investimenti:
Al contrario, in Europa, il termine venture capital era in passato esclusivamente riferito alle operazioni finalizzate a sostenere la nascita di nuove imprese, mentre con il termine private equity si intendeva l’insieme delle operazioni poste in essere per sviluppare attività esistenti o risolvere problemi connessi con la proprietà di un’impresa, incluso il fenomeno del passaggio generazionale. Oggi, a seguito di un processo di standardizzazione metodologica, anche in Europa e in Italia si aderisce alla definizione utilizzata negli Stati Uniti”.
L’investimento in capitale di rischio è una risposta moderna alle esigenze finanziaria dell’impresa in fase di start up o di sviluppo, per elaborare nuove strategie, per favorire acquisizioni aziendali o passaggi generazionali o altri processi critici del ciclo di vita aziendale.
“Un elemento che caratterizza il venture capital è che il supporto dell’investitore istituzionale non si esaurisce nella mera fornitura di capitale di rischio; un ulteriore vantaggio deriva dalla disponibilità di know how manageriale che l’investitore mette a disposizione dell’impresa per il raggiungimento dei suoi obiettivi di sviluppo. Ciò si traduce anche nella possibilità di supporto alla crescita esterna, attraverso contatti, investimenti, collaborazioni e altro, con imprenditori dello stesso o di altri settori”.
Qui di seguito schematizziamo il processo di raccolta di capitale, riportato su www.aifi.it (Associazione Italiana del Private Equity e Venture Capital), suddiviso in sette fasi:
“Nella fase di identificazione del mercato target, prima di procedere ai contatti con i potenziali investitori, l’operatore identifica quali sono i mercati strategicamente più appetibili per la sua raccolta.
È importante che, prima di rivolgersi a investitori internazionali, l’operatore acquisti stima e riscontri positivi presso il proprio mercato nazionale. Successivamente è possibile dare avvio alla fase di pre-marketing, rappresentata da un naturale prolungamento di quanto esposto in precedenza.
La scelta dei primi investitori cui rivolgersi, infatti, viene realizzata soprattutto per attrarne altri di dimensioni maggiori e originare così un circolo virtuoso. Esistono anche particolari soggetti, i cosiddetti gatekeepers, che per i fondi chiusi di piccola dimensione rappresentano, spesso, l’unica via per accedere ad alcuni mercati geograficamente lontani dal proprio. Questi soggetti, infatti, sono consulenti, gestori di portafogli di fondi e manager di grandi investitori istituzionali e rappresentano a loro volta un alto numero di investitori. La buona accoglienza presso alcuni di questi soggetti dà una sorta di “marchio di garanzia” per altri potenziali investitori. Tale garanzia è data, in parte, dall’esperienza maturata da costoro e, in parte, dalle rigorose e standardizzate procedure di due diligence che essi, data la loro dimensione, possono mettere in atto.
Preparandosi al fundraising, che ci si avvalga o meno di una rete di advisors, è necessario che il promotore strutturi il proprio fondo nei minimi dettagli, sotto il profilo tecnico, legale e fiscale.
Una volta strutturato il fondo secondo tutte le direttrici, occorre preparare un documento di presentazione (il placement memorandum) che, come una sorta di business plan, costituisce il biglietto da visita dell’operatore. In molti casi il memorandum si rivela non solo la prima, ma anche l’ultima opportunità per attrarre nuovi investitori: un piano di marketing sbagliato può indurre gli investitori a tralasciare un progetto d’investimento buono, ma mal presentato (e quindi non compreso). Nel documento, il management del fondo deve riuscire a sintetizzare ciò che è stato fatto in passato, con le relative performance ottenute, come pensa di agire per mantenere o migliorare tali risultati e quale è il proprio vantaggio competitivo rispetto ad altri soggetti (ciò che dovrebbe indirizzare la scelta verso il proprio fondo). Un esauriente placement memorandum deve, in primo luogo, contenere la descrizione di tutti i termini e delle condizioni, includendo, quindi, dati e prospetti a proposito di:
Quanto realizzato fino a questo punto è ovviamente finalizzato all’incontro con gli investitori, durante il quale essi valutano se proseguire i contatti o se interromperli, nel caso non siano soddisfatti da quanto offerto, o non lo comprendano a fondo. Infine, deve essere predisposta la documentazione legale, rappresentata da tutti gli atti e i contratti necessari per la conclusione dell’investimento, quando ormai la scelta dell’investitore è pressoché fatta e siglati i quali l’attività di fund raising può definirsi conclusa.
Gli approfondimenti circa l’evoluzione che ha interessato l’attività di fundraising in Italia sono disponibili nella sezione statistiche del sito AIFI.
L’indicazione degli investitori istituzionali nel capitale di rischio attivi nel nostro Paese attualmente in fase di raccolta è, invece, disponibile sul sito del Private Equity Monitor – PEM”.
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