Redazione
[email protected]
[email protected]
Direttore
[email protected]
Recover your password.
A password will be e-mailed to you.
I luoghi apparentemente più incontaminati del nostro pianeta cominciano a mostrare i primi segni di défaillance. Colpa dell’uomo, ovviamente, che non riesce a preservare neanche i paradisi naturali più difficili da raggiungere. E’ quanto denunciano gli attivisti di Greenpeace che mettono in luce la presenza di sostanze chimiche pericolose e persistenti sulle vette più alte del mondo, ma anche sulle cime dei nostri Monti Sibillini. I dati raccolti da Greenpeace nel suo rapporto “Impronte nella neve”, in merito alla diffusione nell’ambiente dei perfluorocarburi (Pfc), composti chimici impiegati in diversi processi industriali, punta il dito in particolare sui capi di abbigliamento outdoor.
Fra maggio e giugno, otto squadre di attivisti di Greenpeace, infatti, hanno intrapreso spedizioni in altrettante aree montane e remote di tre continenti per prelevare campioni di acqua e neve. Stando al rapporto le concentrazioni maggiori di Pfc sono state trovate nel lago di Pilato sui Monti Sibillini, tra Umbria e Marche, ma anche negli Alti Tatra, in Slovacchia, e sulle Alpi, nel parco nazionale svizzero. Le altre spedizioni sono state portate a termine nella Patagonia cilena, in Cina, Russia, Turchia e nei Paesi scandinavi.
«Abbiamo trovato tracce di Pfc nei campioni di neve raccolti in tutte le località indagate», rivela Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace Italia. «Dei 17 composti riscontrati in tutti i campioni di neve analizzati, ben 4 hanno mostrato le concentrazioni maggiori nei campioni del lago di Pilato, tra cui il perfluorottano sulfonato già soggetto a restrizioni nell’ambito della Convenzione di Stoccolma». I Pfc sono impiegati in molti processi industriali per la produzione di beni di consumo. «Il settore dell’abbigliamento outdoor», spiega Greenpeace, «li usa nelle finiture impermeabilizzanti e antimacchia. Una volta rilasciati nell’ambiente si degradano molto lentamente, restando nella forma originaria per diversi anni e disperdendosi su tutto il globo». Una fonte di inquinamento per il pianeta, dunque, ma non solo, come evidenzia l’organizzazione ambientalista spiegando che alcuni Pfc possono causare danni al sistema riproduttivo e ormonale, e favorire la crescita di cellule tumorali.
Sono nata ad Avezzano (L’Aquila) sotto il segno dell’acquario, il 18 febbraio 1981, e dal 2009 vivo a Montesilvano (Pescara). Socievole, chiacchierona e curiosa dalla nascita, ho assecondato questa naturale inclinazione laureandomi a 24 anni in Scienze della Comunicazione a Perugia e scegliendo il giornalismo come ragione di vita prima ancora che come professione. Dopo diverse esperienze come giornalista di carta stampata e televisiva, dal 2012 mi occupo di cronaca per il quotidiano abruzzese il Centro, oltre a curare diversi progetti come freelance. Tra le mie più grandi passioni, oltre alla scrittura, ci sono i viaggi, la fotografia e il cinema, che nel 2011 mi hanno portato a realizzare, come coautrice, un documentario internazionale sulla figura della donna nell’area del Mediterraneo. Dall’estate 2015 ho il privilegio di dirigere il portale Felicità pubblica. Indipendente, idealista e sognatrice, credo nella famiglia, nell’amore, nell’amicizia e nella meritocrazia e spero in un futuro lavorativo migliore per i giovani giornalisti che, come me, preferiscono tenere i sogni in valigia piuttosto che chiuderli in un cassetto.
Recover your password.
A password will be e-mailed to you.
Ripropongo questo articolo, scritto anche per rispondere a chi aveva contestato il mio intervento dell’anno scorso (2019) su “L’alpinismo: una prosecuzione del colonialismo con altri mezzi?”. Evidentemente chi ormai vive di Montagna (o meglio, come già detto, della sua mercificazione spettacolare) non accetta che il suo stile di vita (e quello degli sponsor) venga messo in discussione. Ma il motivo contingente è anche un altro. Forse incautamente avevo ironizzato sulle “settimane bianche” in Pakistan. Leggo oggi su la Repubblica che un noto esponente politico (stando ai miei parametri, sostanzialmente di centro-destra) andrà appunto in Pakistan a fare dell’heliski (una delle attività meno ecocompatibili tra quelle svolte sulle Montagne).
Dirò solo che si chiama Matteo, indovinate voi quale dei due…
GS
MA SONO MORALMENTE ACCETTABILI LE “SETTIMANE BIANCHE” IN PAESI SOTTOPOSTI A REGIMI MILITARISTI E REPRESSIVI?
Gianni Sartori
A voler essere irriverenti, scanzonati, magari leggermente cinici si potrebbe anche dirlo: “Ah! Ecco perché gli elicotteri di soccorso (militari o comunque gestiti dall’esercito) non arrivavano – o arrivavano in ritardo – per soccorrere gli spavaldi occidentali in gita sulla neve!”. Servivano ad altro evidentemente. Quando non li usano per colpire – anche con gas letali – le popolazioni indocili (come nelle città di Dera Bugti, Mashkai, Awaran, Nisarabad, Panjgur… bombardate e ridotte in macerie), sono utilizzati per scaricare in mare dissidenti e oppositori. Meglio se beluci.
Per saperne qualcosa di più in merito alla sostanziale “pulizia etnica” con cui i governi pachistani intendono mantenere nei limiti di norma (i loro limiti di norma , beninteso) la questione Belucistan, conviene andare a rileggersi l’articolo di Francesca Marino (Espresso del 3 novembre 2019, “Gettati in mare dagli elicotteri: il Pakistan come l’Argentina golpista”). Ricordando anche che il Pakistan è al secondo posto (dopo il Qatar e prima della Turchia) tra i paesi destinatari della vendita di armamenti italiani.
Un passo indietro. Messo alla gogna per un pacato intervento sull’alpinismo come ipotetica prosecuzione del colonialismo, ho lasciato perdere avendo altro (molto altro, vedi il Kurdistan) di cui occuparmi.
Tuttavia rispolverando le mie – per quanto frammentarie – informazioni sul Pakistan, ho ripescato cose che già sapevo, ma su cui non mi ero mai soffermato più di tanto.
Per esempio sui beluci che vivono una situazione analoga a quella dei curdi in Bakur, i territori sottoposti alla Turchia (ma non solo; non è che nel Rojhelat – territorio curdo sottoposto al regime iraniano – se la passino tanto meglio, come del resto succede ai beluci “iraniani”).
Tra l’altro ho ritrovato un mio vecchio articolo (vedi “Gli USA ridisegnano (a tavolino!) un nuovo Medioriente. Un tentativo di strumentalizzare le lotte per l’autodeterminazione di curdi e beluci?” – 21 gennaio 2007, dovrebbe essere ancora in rete) dove appunto tali analogie – per quanto non approfondite quanto meritavano – si intravedevano tra le righe.
In sostanza, se inizialmente parlando di “colonialismo” mi riferivo più che altro all’aspetto culturale (diffusione del consumismo, spettacolarizzazione e mercificazione della Montagna, degrado ambientale…) ho dovuto prendere atto che forse eravamo di fronte a forme di colonialismo classiche: investimenti economici, controllo delle classi dirigenti (della comprador bourgeoisie), accordi militari…
Sia di quello occidentale nei confronti di paesi del – cosiddetto, molto cosiddetto – “terzo mondo”, sia di quello “interno” operato da Stati – come appunto il Pakistan o la Turchia – nei confronti delle popolazioni minorizzate (“minoritarie” non rende l’idea).
MA “IL PREZZO DELLA CONQUISTA” CHI LO HA PAGATO VERAMENTE?
Non mancavano i precedenti. Anche leggendo il libro-intervista con Lacedelli di Giovanni Cenacchi sulla conquista del K2 nel 1954 si comprende – al di là delle intenzioni degli autori – quale fosse la reale posta in gioco.
Nonostante scelga di non approfondire più di tanto (pag. 115: “è questo un argomento su cui non è possibile trarre conclusioni certe” sic!) sui rapporti tra il governo italiano e quello pakistano dell’epoca, l’autore non può ignorare che le imprese italiane (tra cui spiccava la nota, per qualcuno famigerata, Impregilo)*, utilizzando sia finanziamenti governativi, sia quelli della Banca mondiale, ebbero in appalto le “grandi opere”. In particolare quelle da realizzare nel bacino dell’Indo (dighe, canali, infrastrutture…) come la monumentale diga di Tarbela. Senza escludere altri benefit (politici, economici, commerciali…forse anche militari) in cambio del permesso per la spedizione.
Ma – per restare in clima coloniale – si va completamente fuori del vaso con il tentativo di giustificare Lacedelli & C per le problematiche sorte con i portatori hunza
Le definisce un “tema d’atmosfera (a cosa si riferisce, forse a quella rarefatta delle alte vette??? nda ) che può imbarazzare nel racconto del nostro alpinista ampezzano”. E fustiga (pag. 90) preventivamente gli eventuali buonisti radical-chic con parole che riporto per esteso e che si commentano da sole:
“Una retorica etnologica e terzomondista che affligge ancora oggi molte relazioni d’alpinismo extraeuropeo dipinge a volte l’indigeno di montagna come un “buon selvaggio”, generoso e sorridente, povero di beni materiali ma ricco di una spiritualità da cui noi ricchi occidentali dovremmo imparare valori rimossi . Il ricordo che Lino Lacedelli, montanaro tra i montanari agli antipodi culturali delle sue Dolomiti, ci consegna a proposito di hunza e balti è tutt’altro che edificante e “politically correct”. Tra i coolies della lunga carovana del K2 non mancavano soggetti affidabili e ammirabili, certo. Ma la maggior parte pare fosse costituita da fannulloni, scioperati e scioperanti, bugiardi, pronti a darsi malati e a fuggire alla prima occasione, non senza aver rubacchiato dalle italiche tasche. Lacedelli ricorda che a volte “era necessario prenderne uno o due da parte e usare la piccozza” (…). Fin qui note di colore (…)”. **
Di colore? O forse intendeva “di dolore”?
Lacedelli & C – poveretti! – saranno anche stati figli del loro tempo, ma tali frasi vengono scritte e pubblicate nel XXI secolo (il libro è del 2004).
Capite ora perché insisto: gli alpinisti, così come i loro parenti stretti, i turisti, è meglio se ne restino a casa loro. Dovunque vanno fanno solo danni, morali e materiali.
Si parva licet…
Con tali premesse, a questo punto anche la sostituzione di un ponte in legno con uno in acciaio può assumere valenze differenti da quelle di un intervento umanitario. Magari una forma di “pubblicità” che rinvia a futuri accordi commerciali, appalti e commesse. Per non parlare del fatto che tale ponte, oltre ai fuoristrada per raggiungere comodamente il villaggio turistico, consentirà il transito anche a blindati e affini. Non si sa mai, visto che non ci troviamo nella tradizionalmente neutrale Svizzera, ma nella Repubblica islamica del Pakistan. Il Paese che avrebbe (condizionale d’obbligo) ospitato per anni a Abbottabad il latitante Osama Bin Laden (nonostante Islamabad ricevesse sostanziosi aiuti militari anche dagli USA). Il Paese che mantiene tuttora in carcere, sottoponendolo a torture, Shakil Afridi, l’incauto medico che nel 2011 avrebbe (sempre col condizionale) fornito alla Cia le informazioni (e il dna) che avrebbero consentito ai Navy Seal l’eliminazione fisica dello sceicco.
Per non parlare della difficile situazione sanitaria che non si risolve certo con qualche donazione e creando ulteriore dipendenza e subalternità.
Per dirne una, quest’anno una epidemia di Hiv ha colpito centinaia di bambini (di famiglie povere, particolare non secondario) a Ratodero.
Le accuse nei confronti di un pediatra che avrebbe riutilizzato le stesse siringhe (evento peraltro probabile) avevano lo scopo di minimizzare la gravità della situazione. Con centinaia di dentisti, barbieri e paramedici che operano direttamente in strada, senza rispettare – anche volendo – procedure e protocolli e utilizzando strumenti non sterilizzati. Del resto la possibilità di cure adeguate per gran parte della popolazione, soprattutto la più diseredata, sta diventando un lusso inaccessibile e ci si arrangia come si può.
Ma su questo la popolazione, i sindacati, le associazioni si stanno già, per quanto faticosamente, riorganizzando.
Anche recentemente si sono avuti scontri tra manifestanti (medici, operatori sanitari, parenti di malati…) e polizia, con numerosi feriti e arresti, davanti a cliniche e ospedali per protestare contro la nuova legge RDHA che promuove la privatizzazione della sanità.
Concludo. Nel secolo scorso si praticavano forme di boicottaggio nei confronti dell’apartheid di Pretoria e – ancora oggi – della pulizia etnica di Ankara contro i curdi (qualcuno rammenta la la spinosa faccenda della Turban?). Allo stesso modo – almeno credo – si dovrebbe agire nei confronti di Islamabad che – tra le altre cose – perseguita e opprime i beluci (decine di migliaia le persone torturate e i desaparecidos, oltre alla sostituzione etnica in stile cinese, come in Tibet).
E ovviamente la prima forma di boicottaggio è quella del turismo. Sia alpinistico che sciistico, escursionistico o magari balneare. Quindi, niente settimane bianche sulle vette pakistane più o meno inviolate. Pensateci, ma non limitatevi a questo.
Resta comunque improbabile che tali argomenti tolgano il sonno a quanti vivono di Montagna. O meglio, della sua rappresentazione spettacolare (vedi operatori turistici, documentaristi, scrittori “di montagna”… e affini). Ormai ridotti a propagandisti sponsorizzati – direttamente o indirettamente – dell’ideologia della stessa. Un tanto al chilo.
Gianni Sartori
*nota 1: Attualmente denominata Salini-Impregilo, è stata oggetto di una denuncia all’Ocse da parte di Survival International per la realizzazione della Gibe III, la più grande diga africana. Devastante per l’ambiente e le popolazioni locali.
**nota 2: A parte un possibile riferimento polemico al libro di Ralph Bircher “Gli Hunza”, va segnalato l’abbinamento – con intenzioni offensive – di “scioperati e scioperanti” (neanche il diritto di sciopero per gli indigeni?) e l’utilizzo – coloniale DOC – del temine “coolies”.
Come è noto i coolies vennero sfruttati, maltrattati e malpagati (oltre che in Asia, in Australia e negli Stati Uniti) fino al XX secolo per i lavori più faticosi e malsani.
Quanto alle piccozzate pare che all’epoca non scandalizzassero più di tanto. E forse ancora oggi non scandalizzano abbastanza. Meno, sicuramente, di quelle inferte nel 2014 da due escursionisti polacchi alla capanna “Info Mont-Blanc”.
https://bresciaanticapitalista.com/2020/12/24/la-lotta-di-classe-al-tempo-della-pestilenza-divagazioni-tra-covid-19-urban-sprawl-rurbains-in-fuga-e-neo-colonizzazione-delle-montagne/