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Festival di Sanremo: cosa ci ha lasciato?

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Archiviata la settimana sanremese, durante la quale si sa che non si parla di altro, gli italiani sono già pronti a tornare a discutere di altri temi, a cominciare dall’immancabile Covid.

Ma davvero il Festival della canzone italiana e il suo boom di ascolti non ci hanno lasciato nulla, se non le canzoni che ci accompagneranno alla radio per i prossimi mesi?

Al contrario, credo sia importante, a bocce ferme, fare delle piccole e personalissime riflessioni su quanto visto e imparato nel corso delle cinque giornate più scintillanti nella città dei fiori.

Donne. Inizierei proprio dal tema più dibattuto negli ultimi anni in merito alle presenze femminili sul palco dell’Ariston. Diverse e ben assortite le accompagnatrici scelte da Amadeus per il suo viaggio. Alcune più disinvolte, altre più impacciate, alcune vestite meglio, altre meno: come al solito sono state le meno protagoniste e le più chiacchierate del Festival. Se un po’ avete imparato a conoscere il mio pensiero, sapete bene che io, che voglio essere chiamata direttore, non sono affatto femminista e credo che ognuno debba essere valutato indipendentemente dal proprio sesso. Ed è proprio questo il punto: possibile che nel 2022 siamo ancora costretti a fare distinzione tra valletta bella e sciocca e donna intelligente di spessore? Eppure, è questo il messaggio lanciato dal direttore artistico che, seppure in totale buona fede, ci ha tenuto più volte a sottolineare come le donne scelte per la co-conduzione del Festival fossero anche intelligenti e preparate, quasi a dire che, se si sa cercare, è possibile anche trovarla questa merce così rara. Salvo poi relegarle alla presentazione di due o tre canzoni, a qualche monologo che dimostri che sanno anche parlare, insomma a garantire, anche sul palco, quelle quote rosa che fanno tanto politically correct ma che rischiano di essere ancora più discriminanti. E viene da pensare che a questo punto che forse aveva proprio ragione Checco Zalone quando, con la sua ironia dissacrante, ha detto al conduttore: “se avessi messo una scema, almeno avreebbe potuto portarmi l’acqua”.

“Pipponi”. Per restare in tema di politically correct, è proprio necessario dover fare i pesanti moralizzatori sul palco di Sanremo? Non mi fraintendete! Credo sia importante lanciare messaggi di integrazione o di solidarietà, soprattutto quando si ha la possibilità di raggiungere una platea tanto vasta (13 milioni di spettatori solo nell’ultima serata). Ma ahimè, nella maggior parte dei casi, ridurre temi tanto complessi come quello del razzismo, dell’hate speech, della disabilità a un brevissimo monologo, a volte anche poco azzeccato, credo serva solo a banalizzare un tema con l’obiettivo di lavarsi la coscienza, senza arrivare da nessuna parte. Penso ad esempio a Lorena Cesarini: sentivamo davvero l’esigenza di far passare una brava attrice per la vittima criticata per il suo colore della pelle? Soprattutto se, per sua stessa ammissione, non si è mai sentita discriminata prima del festival? Non le avremmo reso più giustizia facendole fare semplicemente il suo lavoro e dimostrando a tutti la ragione per la quale aveva guadagnato di stare su quel palco indipendentemente dalle sue origini? Per non parlare del tema della disabilità: anche in questo caso, nobile l’intento di Amadeus, ma pessimo il risultato. Portare sul palco dell’Ariston quattro persone con disabilità (ciechi in questo caso) e non consentire loro di dire neanche una parola, rendendoli anche muti, ha avuto più il gusto amaro dell’esibizione di fenomeni da baraccone.

Fluidità. “Mahmood e Blanco sono Albano e Romina in versione fluida”, così il wedding planner più famoso d’Italia, Enzo Miccio, ha commentato il duetto vincitore del festival di Sanremo. Sicuramente il concetto di fluidità, che già aveva fatto capolino l’anno scorso all’Ariston grazie alla presenza di Madame, ha accompagnato tutte le serate e buona parte delle discussioni sul Festival. Il merito non va di certo al direttore artistico, se non nella sua ottima intuizione di dare maggiore spazio ai giovani artisti. Sono loro, quelli che appartengono alla generazione Z, che per fortuna portano con sé il dono della fluidità senza finzione né forzature. Uomini che indossano lo smalto alle unghie, si truccano o vestono camicie in chiffon con una naturalezza che, purtroppo, turba ancora troppe persone. O meglio, disturba. E guai a parlare di omofobia, al contrario. Quello che lascia perplessi molti “boomer”, infatti, è proprio il discostarsi da questo abbinamento automatico merletti e lustrini uguale gay. E così molti hanno strabuzzato gli occhi sentendo Blanco salutare la sua fidanzata Giulia dal palco dell’Ariston. “Ma come? Non fa coppia con Mahmood? E allora quella canzone e quel trasporto nell’esecuzione?”. La risposta è semplice: sono giovani e di fluido hanno soprattutto la mentalità. Quella mentalità che mi auguro un giorno possa avere ognuno di noi quando, guardando il Festival di Sanremo, non si chiederà più se quel cantante sia omosessuale o se quel brano sia dedicato a una donna o a un uomo. Perché del resto, ce lo hanno insegnato proprio Mahmood e Blanco (qualcuno rimarrà deluso vedendo il video della canzone e scoprendo che ognuno di loro interpreta una diversa storia d’amore, una etero e l’altra omosessuale): l’amore è amore e le storie possono mettere i “Brividi”, indipendentemente dal sesso dei loro protagonisti. E voi bigotti rassegnatevi: Damiano con ombretto e matita, Mahmood con la gonna o Blanco con il pizzo sono decisamente più virili di tanti di voi con la giacca, la cravatta e i paraocchi.

Il direttore

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Presentazione: Fondo Impresa Donna

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