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Chi ha visto i diversi video che tutte le tv hanno mostrato di quanto accaduto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), come me ha ancora negli occhi e nel cuore l’orrore per quanto è accaduto.
Tant’è che la Magistratura ha definito l’episodio come “uno dei più drammatici episodi di violenza di massa ai danni dei detenuti”. Poiché i fatti sono accaduti nel mese di aprile del 2020, sono occorsi mesi di indagini che hanno esaminato le chat degli agenti penitenziari, audio, videocamere di sorveglianza e referti vari.
Oltre 100 gli indagati e 52 tra questi hanno ricevuto misure cautelari come arresti domiciliari e interdizioni; non solo secondini, ma anche chi ha cercato di nascondere le prove – come medici Asl e dirigenti del carcere – hanno subito lo stesso trattamento.
I fatti sono ormai tristemente noti: la sera prima del violento pestaggio ai detenuti, c’era stata una rivolta dei carcerati (rientrata in poche ore) per la scoperta di un detenuto positivo al Covid 19. Ecco che la sera successiva è scattata la vendetta delle guardie, abbattutasi su ogni detenuto. Persino a un disabile in sedia a rotelle sono state date ripetute manganellate in testa, mentre gli altri detenuti venivano fatti inginocchiare e su di loro si abbattevano grandinate di pugni, schiaffi, testate con i caschi. Peggio ancora, è stato formato un corridoio di guardie attraverso il quale i detenuti dovevano passare uno per uno per venire singolarmente manganellati, picchiati e presi a calci. E voglio sottolineare che agli atti risulterebbe che nelle chat degli agenti, i carcerati siano stati definiti come “vitelli da abbattere” oppure “bestiame” e altri nomi deliranti di esaltazione collettiva.
Sono passati esattamente 20 anni dai gravi episodi del G8 di Genova, con la violenza brutale e assassina delle forze dell’ordine sia nelle strade, sia alla scuola Diaz, sia alla caserma di Bolzaneto, ma la ferita non è ancora stata sanata; infatti, come ha ribadito recentemente la Corte europea dei Diritti Umani, quella fu “tortura su larga scala”. Purtroppo nel nostro Paese non esisteva nemmeno una legge per questo tipo di reato, che venne introdotta successivamente nel 2017.
Associazione Antigone ha raccolto tutti i casi di applicazione di questo “nuovo reato” nell’ambito del sistema carcerario italiano. C’è stato quindi l’agente di polizia penitenziaria condannato lo scorso gennaio per tortura contro un detenuto nel carcere di Ferrara. C’è stata la condanna in primo grado per tortura e lesioni aggravate a carico di dieci agenti del carcere di San Gimignano, arrivata lo scorso febbraio. Ci sono state le misure cautelari, tra cui i domiciliari, disposte a gennaio per diversi agenti accusati di tortura contro i detenuti nel carcere fiorentino di Sollicciano. Altre misure cautelari sono state emesse nel 2019 nei confronti di 13 agenti del carcere Lorusso e Cutugno di Torino, per un’inchiesta su presunte torture e altri abusi commessi nei confronti dei condannati. E poi ci sono fior fiore di altre indagini in stato ancora più embrionale, dall’istituto milanese di Opera a quello emiliano di Modena, passando per Melfi, Pavia e altre carceri.
C’è, insomma, un problema di abusi di potere e violenze nelle carceri italiane che è probabilmente figlio dell’impunità seguita ai tragici fatti del G8 di Genova di venti anni fa.
Eppure ci sono leader politici italiani come Giorgia Meloni che ha definito quella sulla tortura una legge che impedisce alle forze dell’ordine di fare il loro lavoro, mentre Matteo Salvini – ogni volta che scoppia un’inchiesta per tortura nelle carceri – sbraita e corre a dare la sua solidarietà agli agenti indagati.
Mi indigna sentire parole simili, mi immagino spesso il nostro Pietro Beccaria che si rivolta nel suo avello, dopo aver sudato sul suo saggio “Dei delitti e delle pene”.
Il carcere deve avere una funzione rieducativa, non essere luogo di punizione persino corporale. E la condanna deve essere equa e proporzionale per tutti, dal ladro di polli all’evasore fiscale, al riccastro di turno che pensa di poter comprare il mondo. Certezza della pena sì, ma anche adeguatezza dei luoghi in cui scontarla. Pena sì, ma anche spazi, nuove strutture che possano impedire un affollamento non degno di un Paese civile.
Sono nata a Milano il 3 giugno 1957 da genitori piemontesi. Mi sento però a tutti gli effetti milanese perché amo profondamente la mia città. Ho frequentato il Liceo Classico Omero, percorso di studi che rifarei senza alcuna remora. Amo tutta la letteratura e tutti i libri che siano degni di chiamarsi tali e possiedo una notevole libreria in casa, tant’è che ho fatto rinforzare i pavimenti.
Ho svolto nel corso degli anni praticamente tutti i lavori inerenti ad aziende di commercio alimentare, dall’import alla contabilità, alla conoscenza dei prodotti.
Sono poi passata a interessarmi di economia e finanza ma le mie passioni rimangono quelle umanistiche, in particolare la Storia. Mi piace molto scrivere, attività che ho sempre svolto con molta passione.
Adoro tutta la musica, da quella classica a quella contemporanea, da quella popolare a quella cantautoriale.
Mi diverto a cucinare i piatti della tradizione e, ahimè, oltre a cucinarli, li mangio.
Mi piacciono le sfide e amo confrontarmi con gli altri, per questo sono contenta di collaborare con Felicità Pubblica che me ne dà l’opportunità…
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