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La guerra di Gaza

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Confesso, faccio fatica a comprendere quanto succede in questi giorni in Israele e Palestina nonostante da anni cerchi di seguire con attenzione le vicende di questa martoriata parte del Pianeta.

Da sempre ho parteggiato per il popolo palestinese, perché vedesse riconosciuto il suo diritto a una terra e a uno Stato, ma non ho mai nascosto il rispetto e, per certi aspetti, l’ammirazione per Israele. Certo, come sostiene un mio amico, si tratta di un pezzo di Occidente trapiantato in Medio Oriente, eppure è quanto di più vicino alla democrazia e alla giustizia sociale esista in quelle terre.

L’odierna “guerra di Gaza” sembra la manifestazione più evidente della sconfitta della politica locale, della diplomazia internazionale, dell’opinione pubblica e dei media, in sintesi, una vera e propria sconfitta dell’umanità. Siamo di fronte all’ultimo atto, solo nel senso del più recente, di un conflitto “eterno” senza alcuna apparente prospettiva di soluzione.

In questo quadro alcuni dati sono indiscutibili. Negli anni i palestinesi sono stati ricacciati dalla politica espansiva dello Stato israeliano in territori sempre più piccoli e frammentati, dove non c’è alcuna possibilità di attività economica, la popolazione è ridotta in povertà, totalmente dipendente dai sussidi internazionali o, nel migliore dei casi, da qualche lavoro in Israele. In ogni occasione di scontro “militare”, qualunque ne sia stata la causa, l’assoluto squilibrio delle forze in campo, ha portato a contare dieci vittime palestinesi per ogni israeliano. Nello stesso tempo sono cambiati i connotati della battaglia del popolo palestinese. Siamo passati dall’OLP di Arafat, organizzazione laica, nazionalista, di ispirazione socialista, all’Autorità palestinese di Habu Mazen, sempre meno rappresentanza legittima della popolazione locale e sempre più sistema burocratico di gestione degli aiuti, per giungere oggi ad Hamas, movimento religioso estremista, in origine vicino ai Fratelli Musulmani.

In Israele, che troppo spesso rappresentiamo come un monolite, grande è la confusione sotto il cielo. Quattro elezioni in due anni, maggioranze risicatissime, accuse di corruzione, ma Netanyahu rimane arbitro della situazione. La destra al potere è ostaggio dei gruppi religiosi ultraortodossi e dei coloni. Le tante voci contrarie alla politica aggressiva del governo e favorevoli alla creazione dello stato palestinese sono ridotte alla marginalità, confinate in qualche ambito “intellettuale” ormai del tutto estraneo alla politica che conta. Ma soprattutto l’opinione pubblica è intimorita, impaurita e, inevitabilmente, cerca “protezione”. Relativamente in pochi anni Natanyahu, per rafforzare la propria posizione, ha trasformato i coloni da minuscoli gruppi estremisti locali in protagonisti assoluti della scena politica nazionale. Finora la strategia del Primo ministro ha teso a “cronicizzare” il conflitto e lo ha strumentalizzato a fini interni, cercando di inglobare la maggior parte possibile dei territori palestinesi, fin quando la questione sarà diventata marginale.

Come evolverà questa situazione? Le premesse sembrano pessime. Anche sul piano internazionale niente di buono. Anzi, a complicare ulteriormente lo scenario si profila sullo sfondo l’inquietante profilo di Erdogan. Per altro verso, dopo la stagione Trump, Biden cosa vorrà e potrà fare? I suoi margini d’azione sembrano abbastanza limitati, considerando da un lato la forte influenza interna dell’elettorato di origine ebraica e dall’altro la persistente tensione internazionale con Iran e Turchia. Il quadro sembra davvero senza speranza.

Il patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa sostiene che, nonostante tutto, ci sono tanti israeliani e palestinesi “desiderosi di continuare a vivere insieme nel rispetto reciproco” che allo stesso tempo “si sentono tirati – lacerati – da forze estremiste che un tempo latenti oggi sono emerse con drammatica virulenza”. L’unica strada, a sua detta, consiste nel “ricucire gli strappi”. Per questo è importante abbandonare il linguaggio del disprezzo e dell’antagonismo e lavorare tutti per ricostruire una trama di fiducia reciproca. “È un lavoro lungo e non dobbiamo farci troppe illusioni sperando in risultati veloci. Si tratta di un lavoro che parte da lontano, dalle scuole, in primis, insegnando la convivenza, il rispetto, la tolleranza e il diritto”. Sarà possibile? Di certo sembra l’unica via praticabile.

Amnesty: rapporto sulla pena di morte 2020
"Lezione di Storia" a cura di Giuseppe Ulacco e Rossano Giannetti

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