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Sono il direttore di Felicità Pubblica e sono una donna. Voglio essere chiamata direttrice? Giammai!
Le parole sono importanti, come diceva Nanni Moretti, ma la sostanza a mio avviso lo è di più. Non sono maschilista né tantomeno femminista. Riconosco che le donne abbiano determinate caratteristiche e qualità e che gli uomini ne abbiamo altre. Non potrei mai immaginare un mondo senza gli uni o le altre.
Non giudico nessuno e, proprio per questo, non punto il dito contro coloro che si autodefiniscono sindaca, ministra, avvocata, direttrice, ingegnera e chi più ne ha più ne metta. Quello che non sopporto, invece, è chi pretende che chiunque si adegui al proprio modo di sentire. Chi grida allo scandalo e lancia accuse di sessismo o di arretratezza se legge o sente pronunciare la parola sindaco (tanto per dirne una) utilizzata per una donna. Questo insopportabile politically correct che alla fine tanto correct in alcuni casi neanche lo è.
E mi riferisco a chi si scaglia contro coloro che hanno un pensiero diverso, forse antiquato, ma pur sempre un punto di vista, proprio come me. E’ quanto accaduto nei giorni scorsi al direttore d’orchestra Beatrice Venezi che sul palco di Sanremo ha chiesto di non essere chiamata direttrice. Ascoltando le sue parole ho sentito l’eco delle mie. Quante volte – i miei colleghi ne sono testimoni – ho invitato a non chiamarmi direttrice o, peggio ancora, direttora. Sono il direttore di Felicità Pubblica e non sono stata scelta in quanto donna, ma in quanto giornalista. Firmo i miei editoriali con il mio ruolo, ossia “direttore”, e non mi interessa che il mio lettore sappia se sono uomo o donna. A me interessa che trovi interessante quello che scrivo, e non ho bisogno di ribadire che all’anagrafe sono una donna, perché non lo ritengo essenziale.
Quello che trovo più antipatico, probabilmente, è proprio questa necessità di rimarcare, di evidenziare, come se una “a” finale potesse dare maggiore dignità e legittimazione al ruolo della donna. A me suona invece ancora più discriminante: “è donna eppure è sindaco”, “nonostante sia donna è riuscita a fare il direttore”. Ecco come suona nella mia testa ed ecco il motivo per cui a me non convince.
E’ lo stesso motivo per cui, ad esempio, non credo assolutamente nelle quote rosa. E non perché ritengo che le donne non siano in grado di fare politica o di assumere cariche istituzionali. Al contrario. Ma perché ritengo che questa – almeno per come quotidianamente sono abituata a vederla e sentirla – sia l’ennesima umiliazione: “scegliamo tre donne perché la legge lo impone” e non “scegliamo tre persone perché per quel ruolo sono le migliori, indipendentemente se siano uomini o donne”. Forse questo mio pensiero è frutto della mia esperienza personale. In politica, ad esempio, ho avuto una zia che è stata consigliere regionale quando nessuno imponeva la presenza delle donne. Così come conosco delle donne che avrebbero avuto tutti gli strumenti utili per ottenere il proprio ruolo anche senza la necessità delle quote rosa. Di contro, sento invece ancora barattare le quote rosa come prodotti da mercato che servono, ma che valgono meno. “Perché dobbiamo dare noi la donna?”, “Noi abbiamo due posti, ma loro hanno l’assessore uomo”. Credetemi sono frasi che negli ambienti politici vengono pronunciate molto più spesso di quanto non si possa immaginare.
Se poi dobbiamo farne una questione di lingua italiana, beh anche in questo caso avrei molto da dire. So che quella che parliamo è una lingua che muta nel tempo, che si aggiorna, che sta al nostro passo. Ma ci sono cose che a mio avviso rappresentano una vera e propria violenza per il nostro splendido idioma. In questo caso mi riferisco all’uso, sempre più frequente e (per me) snervante, dell’asterisco al posto della finale. Un altro assurdo strumento di ostentazione del politically correct a tutti i costi che rischia di risultare addirittura ridicolo. Non esiste nella nostra lingua “tutt*” e non mi sento più coinvolta o meno discriminata se lo si utilizza al posto di un generico “tutti” che, onestamente, non mi ha mai offeso.
Così come sono certa che nessuno dei miei colleghi uomini si sia mai posto il problema di essere chiamato giornalista o abbia mai sentito l’esigenza di dover cambiare quella vocale finale per ribadire la propria appartenenza all’universo maschile.
Questione di punti di vista? Sicuramente. Del resto, questo è il mio, che lo condividiate oppure no.
Il direttore
Sono nata ad Avezzano (L’Aquila) sotto il segno dell’acquario, il 18 febbraio 1981, e dal 2009 vivo a Montesilvano (Pescara). Socievole, chiacchierona e curiosa dalla nascita, ho assecondato questa naturale inclinazione laureandomi a 24 anni in Scienze della Comunicazione a Perugia e scegliendo il giornalismo come ragione di vita prima ancora che come professione. Dopo diverse esperienze come giornalista di carta stampata e televisiva, dal 2012 mi occupo di cronaca per il quotidiano abruzzese il Centro, oltre a curare diversi progetti come freelance. Tra le mie più grandi passioni, oltre alla scrittura, ci sono i viaggi, la fotografia e il cinema, che nel 2011 mi hanno portato a realizzare, come coautrice, un documentario internazionale sulla figura della donna nell’area del Mediterraneo. Dall’estate 2015 ho il privilegio di dirigere il portale Felicità pubblica. Indipendente, idealista e sognatrice, credo nella famiglia, nell’amore, nell’amicizia e nella meritocrazia e spero in un futuro lavorativo migliore per i giovani giornalisti che, come me, preferiscono tenere i sogni in valigia piuttosto che chiuderli in un cassetto.
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