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Cartoline dalla Rotta balcanica

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Il freddo, la fame, la stanchezza, il Covid e poi la polizia, il filo spinato, l’attesa estenuante, la mancanza di certezze. Auschwitz, Buchenwald, Birkenau, Dachau, Mauthausen? No. Sono le drammatiche e attualissime “cartoline” che quotidianamente arrivano Lipa, Bihac e Velika Kladusa, dalla cosiddetta Rotta balcanica, ossia il tragitto compiuto da migliaia di migranti e richiedenti asilo che da troppo tempo ormai sono bloccati al confine tra Bosnia e Croazia.

Donne, uomini, bambini e anche tanti minori non accompagnati – come ha denunciato proprio questa settimana Save the Children – che sognano per se stessi e per i propri familiari un futuro migliore ma che, dopo essere scappati da situazioni difficili nei rispettivi Paesi d’origine, ora sono costretti a vivere in un limbo che non conosce fine. Un limbo che ha tutto il sapore dell’inferno considerando le precarie condizioni in cui in migliaia versano, all’interno dei campi di accoglienza i più “fortunati” o accampati all’addiaccio tra i boschi coloro che non hanno trovato spazio.

A descrivere la situazione, qualche giorno fa, è stata anche la street artist italiana Laika che ha scelto di raggiungere i luoghi simbolo della Rotta balcanica per sensibilizzare con i suoi poster sulle condizioni dei migranti. “Ho voluto vedere con i miei occhi quali fossero le condizioni di migliaia di persone bloccate alle porte dell’Europa. Freddo, scarsità di cibo ed acqua e violenza da parte della polizia ogni volta che si prova ad entrare in Croazia: è questa la terribile routine dei migranti sulla rotta balcanica. Non c’è nulla di umano nel vivere così”.

Ed è proprio la stessa violenza, quella dei militari croati, che hanno vissuto sulla propria pelle nei giorni scorsi quattro eurodeputati – Pietro Bartolo, meglio noto per essere il medico di Lampedusa che ha soccorso tantissimi migranti in questi anni, Pierfrancesco Majorino, Alessandra Moretti e Brando Benifei, impegnati in una trasferta per verificare di persona la drammatica situazione allo sbocco della Rotta balcanica, dopo le denunce e i reportage giornalistici sui respingimenti arbitrari e le violenze sui migranti.

La delegazione aveva concordato con l’ambasciatore croato a Roma il tragitto, garantendo che non avrebbero sconfinato in Bosnia, ma era stato loro assicurato che sarebbero potuti arrivare al posto di confine. “Però a 500 metri dalla frontiera”, hanno raccontato, “ci aspettava la polizia croata. Avvertiti del nostro arrivo, gli agenti avevano allestito uno sbarramento con del nastro bianco. Si sono giustificati parlando di una possibile presenza di mine. Visto che sulla strada passava la stessa polizia, abbiamo deciso di proseguire a piedi ma decine di poliziotti armati e muniti di guanti con le nocche rinforzate con fare minaccioso hanno formato una barriera umana impedendoci di passare”.

Un fatto molto grave, come hanno evidenziato gli eurodeputati, soprattutto alla luce del fatto che il confine tra Croazia e Bosnia è presidiato anche dall’Agenzia Ue Frontex, quindi per gli eurodeputati era loro dovere ispezionarla. “Se siamo stati trattati così noi”, hanno proseguito, “figuriamoci come possono essere trattati i migranti”. C’è il sospetto, infatti, che al confine stiano avvenendo delle violenze e dei respingimenti illegali per impedire ai migranti di presentare domanda di asilo, garantita loro dal diritto internazionale.

“Va superata la logica degli accordi di Dublino, ci vuole una svolta vera, una svolta che non si fondi sull’esternalizzazione continua delle frontiere, sui respingimenti come unica soluzione”, ha ribadito più volte Pietro Bartolo che di tragedie e di sofferenze, suo malgrado, è diventato un testimone diretto.

Ed è forse proprio la mancanza di conoscenza, di contatto diretto, di umanizzazione del “migrante” – visto come entità e non come persona, con un volto, un nome, una storia – che genera mancanza di empatia, razzismo, indifferenza. Ma non è nascondendo la verità, facendo finta di niente o infilando la polvere sotto il tappeto che si risolvono i problemi. A tal proposito aveva ragione da vendere, a mio avviso, Zygmunt Bauman che nel suo “La società sotto assedio” scriveva: “Le porte possono anche essere sbarrate, ma il problema non si risolverà, per quanto massicci possano essere i lucchetti. Lucchetti e catenacci non possono certo domare o indebolire le forze che causano l’emigrazione; possono contribuire a occultare i problemi alla vista e alla mente, ma non a farli scomparire”.

Il direttore


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