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Devo essere onesta, il merito è stato di mia madre. “Questa sera ti chiamo un po’ prima perché voglio vedere l’intervista al Papa”, mi ha spiegato qualche giorno fa anticipando di qualche decina di minuto la consueta telefonata serale. Io, che non seguono con particolare interesse i canali Mediaset, non ero a conoscenza di questo appuntamento e, dopo averci riflettuto un po’, ho deciso di guardare anche io quel programma.
Voglia di ascoltare papa Francesco? Non è stato questo il primo motivo che mi ha spinto a seguire la trasmissione, quanto piuttosto la voglia, da giornalista, di ascoltare in che modo sarebbe stata condotta l’intervista e quali le domande che il collega vaticanista Fabio Marchese Aragona avrebbe scelto di rivolgere a un personaggio tanto illustre. Non sono una donna vicina alla religione e, per quanto abbia una grande simpatia nei confronti dell’attuale Pontefice, mai avrei immaginato di seguire quell’incontro dall’inizio alla fine. Ma soprattutto di apprezzarlo e di utilizzarlo come spunto di riflessione.
A conquistarmi, sin dall’inizio, è stata l’umiltà di Francesco che, in prima battuta, ha rinviato al mittente i ringraziamenti del giornalista per la disponibilità del papa a rilasciare l’intervista. “Grazie a voi per essere venuti qui e aver portato tutte queste cose”, ha replicato il Pontefice, riferendosi alle strumentazioni utilizzate per trasformare una delle sale del Vaticano in uno studio televisivo. Questo rispetto per il lavoro della troupe mi ha commosso, intenerito, sorpreso. Troppo spesso, infatti, il nostro è un lavoro – quello degli operatori della comunicazione – che viene screditato, sottovalutato o più semplicemente dato per scontato. Non per il papa, uno degli uomini più potenti del mondo, che ha sentito l’esigenza di ringraziare i giornalisti per la possibilità di essere intervistato “a casa sua”.
Ma sono state, ovviamente, altre le parole di Francesco che maggiormente mi hanno colpito e spinto alla riflessione. In particolare ho apprezzato il tema sollevato dal Papa in merito alla “cultura dello scarto”, riferita ai poveri, ai malati, ai migranti “affogati nel Mediterraneo perché non li abbiamo lasciati venire”. “Le persone che non sono utili si scartano”, ha commentato. Una cultura contro la quale dobbiamo invece applicare, come ha consigliato Francesco, la “cultura dell’accoglienza. Siamo tutti fratelli, non vale guardare da un’altra parte”.
“Dobbiamo mettere il noi davanti all’io. Deve prevalere il noi, deve prevalere il bene comune”, ha aggiunto Francesco. “Vicinanza, questa è la sfida, questa è la parola chiave per risolvere i problemi e per aprire la strada della speranza. Contro la vicinanza c’è la cultura dell’indifferenza che distrugge, c’è un menefreghismo che non è sano”. Parole che il Papa, in particolare, ha pronunciato facendo riferimento ai bambini in guerra “che non sanno cosa sia l’odore della pace”, a quelli senza scuola o che muoiono di fame, alle persone fragili o che vivono ai margini della società.
“Dobbiamo giocare per l’unità, sempre”, perché “nessuno si salva da solo”, ha ribadito il pontefice.
Sono frasi che non dovrebbero affatto sorprendere, soprattutto se pronunciate da un uomo di Chiesa, la cui vita e il cui pensiero dovrebbe essere sempre guidato dai capisaldi della religione cristiana, che sono appunto l’amore verso il prossimo, l’accoglienza, la misericordia. Eppure troppo spesso assistiamo ad atteggiamenti contrari al credo che si professa. “Quelle che dico sono cose semplici, scontate”, ha evidenziato il Papa. Eppure se c’è ancora tutta questa necessità di ribadirle, troppo scontate evidentemente non lo sono.
Come sempre Francesco è riuscito a scegliere parole semplici, dirette, concrete per arrivare al cuore delle persone – ben 5 milioni di telespettatori – che lo hanno ascoltato, siano essi credenti o meno. Nel mio caso c’è riuscito. Io mi auguro che siano molti quelli che, come me, dopo aver ascoltato le sue parole, abbiano riflettuto sul loro significato per poi applicarle nella vita reale, attraverso gesti concreti, reali. Tutti gli altri, hanno perso ancora una volta l’occasione di essere persone migliori.
Sono nata ad Avezzano (L’Aquila) sotto il segno dell’acquario, il 18 febbraio 1981, e dal 2009 vivo a Montesilvano (Pescara). Socievole, chiacchierona e curiosa dalla nascita, ho assecondato questa naturale inclinazione laureandomi a 24 anni in Scienze della Comunicazione a Perugia e scegliendo il giornalismo come ragione di vita prima ancora che come professione. Dopo diverse esperienze come giornalista di carta stampata e televisiva, dal 2012 mi occupo di cronaca per il quotidiano abruzzese il Centro, oltre a curare diversi progetti come freelance. Tra le mie più grandi passioni, oltre alla scrittura, ci sono i viaggi, la fotografia e il cinema, che nel 2011 mi hanno portato a realizzare, come coautrice, un documentario internazionale sulla figura della donna nell’area del Mediterraneo. Dall’estate 2015 ho il privilegio di dirigere il portale Felicità pubblica. Indipendente, idealista e sognatrice, credo nella famiglia, nell’amore, nell’amicizia e nella meritocrazia e spero in un futuro lavorativo migliore per i giovani giornalisti che, come me, preferiscono tenere i sogni in valigia piuttosto che chiuderli in un cassetto.
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