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Addio a Kim Ki-duk, poeta dell’incomprensibile

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Lo scorso 11 dicembre, a soli 59 anni, si è spento il regista sudcoreano Kim Ki-duk, per complicazioni legate al Coronavirus. Kim si trovava in Lettonia, dove era impegnato a cercare una casa in cui soggiornare durante le riprese del suo prossimo film ma poi aveva fatto perdere i suoi contatti fino all’amara scoperta. Il mondo del cinema perde così una delle sue voci più poetiche.

Un uomo introverso, della cui vita privata sappiamo poco perché non era solito rilasciare interviste o dichiarazioni, un artista schivo che si lasciava conoscere solo attraverso la sua arte.

Proveniente da una famiglia povera di agricoltori, Kim nasce il 20 dicembre 1960 a Bonghwa, nella Corea del Sud. Inizia a lavorare in fabbrica a 15 anni e successivamente si arruola nell’esercito.

Dopo alcuni viaggi in Europa rientra in Corea dove esordisce nel 1996 con Coccodrillo alla prima edizione del Busan International Film Festival. Fin dalle prime regie la voce di Kim Ki-duk risulta difficile da incasellare all’interno di un particolare genere, per certi aspetti è vicino al mondo del realismo magico perchè parte da situazioni reali in cui ad un certo punto si incrociano strade oniriche, fantastiche, spirituali.

La consacrazione del regista avviene nel 2000 con il film L’isola con cui iniziano ad arrivare premi internazionali. Nel 2003 con Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera trionfa al Festival Internazionale del film di Locarno. Nel 2004 si aggiudica l’Orso d’argento al Berlin International Film Festival con La Samaritana e nello stesso anno vince il Leone d’argento alla Mostra del Cinema di Venezia con Ferro 3 – La casa vuota. È sicuramente quest’ultimo il film che gli consente di raggiungere il grande pubblico: è la storia di un ragazzo senza fissa dimora che ha l’abitudine di introdursi nelle case degli altri e viverci come se ne fosse il padrone che, a un certo punto, si innamora di una ragazza sposata con un marito violento. Una storia romantica e surreale, un mix di favola e realtà che consacra il regista a livello internazionale rendendolo una delle voci più autorevoli del cinema orientale. Affascinante la scena del bacio in tre, in cui la ragazza abbraccia il marito ma bacia l’amante.

Dopo uno stop di qualche anno dovuto a una crisi esistenziale torna nel 2011 attraverso il docufilm Arirang, una confessione come lui stesso dice: “Riprendendo me stesso, voglio confessare la mia vita, come regista e come essere umano”.

Nel 2012 con il film Pietà, audace e poetico al tempo stesso, si aggiudica il Leone D’oro alla 69a Mostra del Cinema di Venezia.

Mancherà il suo sguardo sul mondo e sull’uomo, capace di coglierne il cinismo, la crudeltà ma anche la bellezza.

“L’odio di cui parlo non è rivolto specificatamente contro nessuno, è quella sensazione che provo quando vivo la mia vita e vedo cose che non riesco a capire. Per questo faccio film: tentare di comprendere l’incomprensibile”.

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