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Chiedetemi di pensare alla felicità e il mio cervello, con associazioni mentali che per motivi di buonsenso intervallati da una spolveratina di sana pigrizia preferirei evitare di ricostruire razionalmente, formulerà una serie di immagini insolite in cui, giusto per orientare i lettori, Epicuro e Zenone, sulle note del brano più celebre firmato da Albano e Romina, banchettano allegramente davanti a un bel piatto di pasta confrontandosi in maniera pacata ma tenace sulle tecniche da attuare per pervenire a uno stato di costante benessere. In lontananza, Schopenhauer e Lopardi, a braccetto, se la ridono di gusto consci dell’illusione che annebbierebbe le menti di Epicuro e Zenone.
Al di là delle personali divagazioni sul tema, la felicità è una cosa seria e qualche giorno fa, in occasione della Giornata Internazionale della Felicità, noi, che non a caso abbiamo nel nome della testata la parola “felicità”, di questo sentimento abbiamo parlato (leggi l’approfondimento). Oggi in particolare soffermeremo l’attenzione sul World Happiness Report 2018: un resoconto nel quale si fa il punto sul livello di felicità presente sul nostro Pianeta. Tale indagine storica sullo stato della salute globale ha preso in considerazione 156 Paesi valutandoli sulla base del loro livello di felicità. Un nuovo indice considerato per il report 2018 è stato quello relativo al fenomeno migratorio: 117 Paesi sono stati valutati anche in base del grado di felicità espressa dagli immigrati.
Al vertice della classifica troviamo la Finlandia: la nazione del Nord Europa ha scalzato il primato detenuto precedentemente dalla vicina Norvegia e vanta oggi il titolo di territorio con gli abitanti più felici del mondo. Interessante notare come le prime dieci posizioni siano detenute da due anni sempre dagli stessi Paesi, vi è solo qualche scambio di posti.
Ma su quali parametri si stila la classifica di felicità? Il World Happiness Report 2018 ha tenuto in considerazione variabili quali: reddito, speranza di vita in buona salute, sostegno sociale, libertà, fiducia e generosità; una sorta di indicatori del benessere che misurerebbero, una volta opportunamente interpretati, il livello di felicità. Se il vertice della classifica è dominato dalle nazioni del Nord Europa, Danimarca e Svizzera si assestano sempre in ottima posizione, alti dati significativi riguardano il Togo, salito di ben 17 posizioni, e il Venezuela che invece registra un crescente peggioramento.
Forse però la scoperta più sorprendente dell’intera relazione è la quasi corrispondenza tra la classifica delle popolazioni immigrate e quella del resto della popolazione: i dieci Paesi più felici nella classifica generale sono i primi dieci anche della classifica della felicità degli immigrati.
Si è rivelato non un dato comune che i popoli dell’America Latina siano predisposti, nonostante dati spesso tutt’alto che positivi, a essere felici: livelli elevati di felicità in America Latina dipendono dal maggiore calore delle famiglie e, in generale, dall’importanza attribuita al tessuto relazionale-sociale.
Il Rapporto termina con un approccio focalizzato su tre problemi sanitari emergenti che minacciano la felicità: obesità, crisi da oppioidi e depressione. Anche se ambientato in un contesto globale, la maggior parte delle prove e delle discussioni si concentrano sugli Stati Uniti, dove la prevalenza di tutti e tre i problemi è cresciuta più rapidamente e più in profondità.
E l’Italia? Il Rapporto ONU ci colloca al 47esimo posto, con un lievissimo miglioramento rispetto all’anno precedente nel quale eravamo quarattottesimi.
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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