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In Italia l’intelligenza artificiale (IA) stenta ad avere successo anche se, stando ai dati forniti dall’ Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano, le domande di lavoro relative a progetti che includono l’impiego di intelligenze artificiali è in aumento.
La diffusione dell’IA nel nostro Paese risulta disomogenea: questo dipende senz’altro dal diverso grado di conoscenze posseduto dalle aziende italiane in materia di tecnologia ma, nonostante il gap, le imprese parrebbero propense a investire nel settore dell’IA. Permangono oggettivi ostacoli e dubbi sull’effettiva ricaduta, soprattutto in termini economici, di una simile scelta: l’IA affascina senz’altro possibili investitori ma è percepita spesso ancora come un azzardo.
Attualmente i campi privilegiati di applicazione dell’IA sono l‘Intelligent Data Processing, a quota 35% e che utilizza algoritmi per estrarre informazioni e avviare azioni basate sulle informazioni estrapolate, e i Virtual Assistant o Chatbot, nati per simulare conversazioni reali e fermi al 25%.
Nei 469 casi globali di utilizzo di IA presi in esame dall’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano è emerso, infine, che solo il 38% delle iniziative che ricorrono all’IA funziona a pieno regime e che una su cinque è in corso di miglioramento.
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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