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E’ proprio il caso di dirlo: la realtà ha superato l’immaginazione. Già, perché da oggi la nostra pelle sarà capace di ripararsi da sola come accade nei film che hanno per protagonisti cyborg e altre creature fantascientifiche.
Fatta di un materiale traslucido, elastico e sottile che imita le caratteristiche di quella umana, la pelle elettronica Terminator – la scelta del nome è un esplicito richiamo alla pellicola di James Cameron – promette risultati sorprendenti: grazie alla capacità di ricaricarsi, avvertire pressione, temperatura, umidità e perfino il flusso d’aria, la e-skin promette di cambiare in meglio la vita di tutti coloro che indossano una protesi e, in generale, il mondo della robotica.
Ma come è stato possibile raggiungere questo traguardo tecnologico? Gran parte del successo risiede nelle nanoparticelle d’argento che hanno l’eccezionale capacità di ricreare, sotto l’aspetto estetico visivo e tattile, l’effetto percettivo di una vera pelle umana. L’autoriparazione invece si ha mediante un mix di tre composti a base di etanolo ed è proprio l’etanolo, noto ai più come alcol etilico, che permette a “Terminator” di possedere un’altra caratteristica: quella della riciclabilità. Immergendo la pelle elettronica in una soluzione di etanolo, il materiale plastico si dissolve completamente lasciando le nanoparticelle sul fondo e, dunque, pronte per essere nuovamente impiegate.
Al momento la nuova pelle è un prototipo, ma si lavora a ritmi serrati per lanciarla sul mercato.
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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