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I dati parlano chiaro: in Italia il 15% dei sieropositivi non sa di esserlo. E questo è un male perché, non sapendolo, i malati non si sottopongono alle cure necessarie per la vita e, cosa pericolosissima, espongono gli altri, ignari a loro volta del pericolo, al contagio.
Ma come convincere le persone a sottoporsi al test per le malattie sessualmente trasmissibili? Si poterebbe a questo proposito far tesoro di uno studio britannico recentemente pubblicato sulla prestigiosa rivista Plos Medicine: secondo la London School of Hygiene, più persone farebbero il test se a offrirlo è il web. Solo il 26.6% dei volontari a cui era stato offerto il test usando modalità “tradizionali”, attraverso cioè messaggi di testo che davano informazioni su dove recarsi per effettuare gli esami clinici, avevano effettivamente scelto di sottoporsi all’esame. Diversa è stata invece la percentuale, assestatasi attorno al 50%, di coloro che hanno fatto il test ordinandolo comodamente da casa e inviando, successivamente, il campione per posta.
I positivi al test sono stati maggiori tra coloro che avevano scelto l’e-test. In Gran Bretagna si sta valutando di estendere a tutto il Paese l’e-test perché è un metodo che risulta efficace per raddoppiare il numero di coloro che si sottoporrebbero al controllo.
Che sia la strada buona anche in Italia?
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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