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E’ stato sviluppato in Giappone un sistema artificiale capace di ricreare le immagini generate dalle onde cerebrali umane.
Lo studio è partito addestrando l’intelligenza artificiale a riconoscere, memorizzare e associare alcune immagini “base”, come un gatto o un albero, ai rispettivi segnali neuronali prodotti dal cervello dei volontari che le guardavano e le ricordavano. In un secondo momento, l’intelligenza artificiale è stata in grado di ricreare autonomamente alcuni simboli mostrati precedentemente ai volontari sino a replicare, dal pensiero delle persone sottoposte all’esperimento, le lettere dell’alfabeto.
Tale tecnologia, guidata da una equipe dell’Università di Kyoto, dimostra come sia possibile creare un apparecchio capace di decifrare l’attività celebrale umana. La strada percorsa fino a questo momento era basata su un sistema di corrispondenze: un computer poteva “indovinare” il pensiero umano attraverso gli input generati da una serie di esempi noti.
Da tempo gli scienziati lavoravano, attraverso il continuo perfezionamento di algoritmi, affinché fosse realizzato un macchinario in grado di leggere nella mente. Ora la meta sembra a un passo dall’essere raggiunta. Per il momento le immagini ricreate dall’intelligenza artificiale nipponica sono, seppure sufficientemente aderenti a quelle originali, piuttosto sbiadite ma, dalla parte degli studiosi, c’è tutto il tempo per migliorare il sistema.
Inevitabile sarà considerare le molteplici ricadute in campo etico che una simile invenzione comporta; sul fronte medico uno dei possibili vantaggi della tecnologia potrebbe riguardare l’opportunità di ampliare le possibilità comunicative per chi è affetto da disabilità.
Sta di fatto che, alla luce di quanto inventato, romanzi come “Fahrenheit 451” di Ray Bradbury e “1984” di George Orwell appaiono sempre meno fantascientifici.
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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