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Il rimpatrio dei rohingya in Myanmar è molto complicato

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È stato raggiunto un accordo tra Bangladesh e Myanmar per rimandare indietro centinaia di migliaia di rohingya fuggiti dalla regione del Rakhine lo scorso agosto quando, nell’ex Birmania, cominciò quella che fu una vera e propria pulizia etnica di cui avevamo parlato qui.

L’esodo dei rohingya è stato definito da molti la “crisi dei rifugiati”, è avvenuto in tempi molto rapidi e si è valutato che in totale i profughi sarebbero circa 650.000: l’accordo stabilirebbe il rimpatrio di circa 1.500 persone a settimana.

Molte le organizzazioni che si sono indignate alla notizia, in testa Amnesty International il cui direttore regionale per l’Asia sudorientale James Gomez dichiara: «Col ricordo ancora fresco degli stupri, delle uccisioni e delle torture nella mente dei rifugiati rohingya, pianificare il loro rientro in Myanmar suona prematuro in maniera allarmante. L’annuncio odierno è stato fatto senza consultare i rohingya e non contiene alcuna rassicurazione che le persone potranno rientrare di loro volontà».

Prosegue ricordando che la campagna violenta contro i rohingya è durata ben due anni durante i quali ogni diritto è stato loro tolto, sono state abbattute le case dei loro villaggi, ripete che hanno subito torture e stupri; pertanto non solo non c’è alcun presupposto perché possano ritornare in quella che era la loro patria, ma se in Myanmar non avverranno radicali cambiamenti – tra cui l’assunzione di responsabilità per crimini contro l’umanità e la fine del sistema di apartheid – sarà impossibile la negoziazione per il rientro degli esiliati.

Ma il problema ancora più grave è che né il Bangladesh né il Myanmar hanno aderito alla Convenzione dei Rifugiati del 1951, anche se, in teoria, tutti i Paesi dovrebbero attuare una politica di non respingimento, un principio chiave del diritto internazionale. Che sarebbe il caso, forse, di ribadire chiaro e forte ovunque, anche in Europa.

Sta di fatto che il Myanmar sarebbe disposto ad allestire due campi profughi provvisori, uno dei quali arriverebbe a ospitare circa 30.000 persone, un numero irrisorio rispetto al totale; immediato il parallelo con i campi profughi libici, purtroppo. Non solo: è stato avviato un processo di ricostruzione delle case distrutte nei villaggi (ben 350 dei quali completamente rasi al suolo), ma le case ricostruite sarebbero solo quelle dei non musulmani, quindi nessun rohingya.

Insomma, il rimpatrio non è certo sicuro e non ci sono nemmeno le premesse perché possa avvenire; intanto ci sono 650.000 persone, uomini, donne e bambini che si vedono negato ogni diritto, persino quello di esistere.

 

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