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18 gennaio 2017. È il giorno della tragedia. Un’enorme valanga travolge l’Hotel Rigopiano. 29 vittime. È trascorso un anno. Oggi le montagne abruzzesi, a differenza di quel giorno, sono illuminate da uno splendido sole. Soltanto le cime coperte da un leggero strato di neve. È il giorno delle commemorazioni. Da abruzzese non posso e non voglio sottrarmi a questo obbligo morale.
Tuttavia, nel ricordare le persone scomparse e nel rinnovare la solidarietà alle loro famiglie, vorrei proporre un altro punto di vista. Non vorrei scrivere delle vite spezzate, dei drammi personali e familiari, dei paradossi del destino. Altri ne hanno parlato meglio di quanto io possa fare. Qualcuno ne ha addirittura parlato troppo, per costruire un infinito capitolo del giornalismo del dolore. Non vorrei scrivere neppure dell’eroismo dei soccorritori, donne e uomini straordinari che rimangono indelebili nella memoria. Ma anche in questo caso fiumi di parole e ripetizione senza fine delle medesime immagini hanno finito per offuscare il racconto e trasformare tutto in retorica. Non vorrei parlare neppure delle vicende giudiziarie. È l’argomento di queste settimane. Lasciamo che la giustizia faccia il proprio corso, seguendo con attenzione e rispetto i suoi diversi passaggi.
Vorrei cogliere questa occasione per una riflessione, a mente lucida, a partire da alcuni dati ormai acquisiti. In Abruzzo non c’era (e non c’è) la carta delle valanghe. Quell’albergo è stato costruito nel luogo sbagliato. Non è stata assicurata la percorribilità della strada per Rigopiano. Nonostante l’allarme meteo l’Hotel non è stato evacuato. La macchina dei soccorsi si è mossa in ritardo e, al netto dell’eroismo individuale, non tutto è andato come doveva.
E allora? Ci sono responsabilità individuali per ciascuno di questi fatti? Lo accerterà la Magistratura. Ma non è questo il problema su cui interrogarci. Ancor prima delle eventuali colpe dei singoli c’è una macchina amministrativa che non funziona nella tutela del territorio, nella prevenzione delle catastrofi naturali, nella protezione civile e, più in generale, nella sicurezza. Nella Pubblica Amministrazione la protezione civile “conta” quanto Cenerentola. Interessante solo per partecipare in bella evidenza alle manifestazioni del volontari, per rilasciare dichiarazioni altisonanti sulla “parte migliore del Paese”. Terminata la liturgia si torna alla “prosa”. La considerazione di chi si occupa di questi temi è assai scarsa. Gli addetti alla sicurezza sono dei rompiscatole. Le esercitazioni (quasi del tutto assenti) svogliate procedure. Chi si occupa della tutela del territorio un nemico dello sviluppo. Naturalmente, come in tutte le cose, ci sono lodevoli eccezioni. Ma la cultura della prevenzione del rischio è indietro anni luce.
Eppure questa è la terra dell’infinito terremoto del 2009, delle ripetute scosse del 2016 e del 2017, eventi che avrebbero dovuto insegnare qualcosa. Purtroppo non è così. Affrontiamo ogni catastrofe mettendo una pezza, caso mai (e non sempre) adempiendo in largo ritardo gli obblighi di legge. Ma non cambia l’atteggiamento complessivo. Non si mobilitano le energie migliori per prevenire e affrontare le calamità. Non si spostano risorse da un capitolo di spesa all’altro per rispondere alle necessità, definendo una chiara gerarchia di priorità. Al massimo ci si mobilita per avere risorse aggiuntive. E se non dovessero arrivare si può sempre sostenere, di fronte all’opinione pubblica e ai magistrati, di aver adempiuto il proprio dovere. Così non si va lontano. Sento già risuonare le proteste di molti amministratori che, anche a ragione, rivendicano il loro impegno. Non c’è dubbio, hanno ragione. Ma la sostanza non cambia. Abbiamo ancora molta strada da fare e se la nostra unica preoccupazione consiste nella giustificazione individuale, davvero non andremo lontani. Forse la prossima volta non sarà un altro terremoto o una disastrosa valanga, ma se non voltiamo pagina potrebbe attenderci una frana o l’esondazione di un fiume. Speriamo di no, ma affidarsi allo stellone ha i suoi rischi.
Questa è la situazione in Abruzzo. Solo in Abruzzo?
Sono nato a Pescara il 18 settembre 1955 e vivo a Francavilla al Mare con mia moglie Francesca e i miei figli Camilla e Claudio. Ho una formazione umanistica, acquisita frequentando prima il Liceo Classico G.B. Vico di Chieti e poi l’Università di Padova, dove mi sono laureato in Filosofia con Umberto Curi. Il primo lavoro è stato nella cooperazione: un’esperienza che ha segnato il mio futuro. Lì ho imparato a tenere insieme idealità e imprenditorialità, impegno individuale e dimensione collettiva, profitto e responsabilità. Negli anni seguenti ho diretto un’agenzia di sviluppo locale e promozione imprenditoriale, sono stato dirigente in un ente locale, ho lavorato come consulente anche per importanti aziende globali. Oggi sono presidente di una start up cooperativa: evidentemente i grandi amori tornano di prepotenza, quando meno te lo aspetti. Nel lavoro mi piace condividere progetti, costruire percorsi inediti, fare squadra, veder crescere giovani professionalità. Amo leggere e ascoltare musica, camminare in montagna e, appena possibile, intraprendere un nuovo viaggio.
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Come sempre, sai cogliere nel segno! Sono pienamente d’accord! Mi complimento per l’ impegno sociale e civile e per la positività e serietà degli articoli.