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Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me. Scriveva così Kant nella “Critica della ragion pratica” e chissà cosa avrebbe pensato il filosofo tedesco riguardo il recentissimo studio pubblicato sulla rivista Frontiers in Integrative Neuroscience che ci aiuta a capire meglio la natura della moralità umana.
La chiave per accedere nell’intricato meccanismo psichico che regola il settore dell’etica sarebbe riconducibile alle cellule nervose, note come neuroni a specchio, in grado di attivarsi quando si compie o si vede compiere un’azione. Secondo lo studio dell’Università della California (Ucla) diretto dal neurologo Marco Iacoboni, la risposta cerebrale di un soggetto che vede una persona provocare dolore consente di conoscere in anticipo quale scelta farà in futuro colui che guarda: se provocare o meno del male a qualcuno.
L’ipotesi di partenza era che le persone con una maggiore reazione naturale sarebbero state quelle meno inclini a provocare dolore agli altri. Misurando attraverso una risonanza magnetica l’attività cerebrale dei volontari sottopostisi all’esperimento è stato evidenziato come coloro che avevano un’attività più marcata nella corteccia frontale inferiore, la zona deputata alla sfera empatica, fossero meno indirizzati a causare dolore negli altri.
Tutto ciò dimostra come il rifiuto di una persona a provocare dolore fisico verso il prossimo sia dovuto non solo al disagio nel compiere di per sé l’azione, ma anche alla preoccupazione per la vittima. Le basi di deontologia etica avrebbero dunque sede nei neuroni a specchio: è vedere il dolore che fa decidere se fare o non fare del male al prossimo.
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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