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Sembra una di quelle notizie da sogno, di quelle che solo una fervida immaginazione può partorire, e invece no, è tutto vero: il tumore, proprio come facciamo per un computer impazzito, può essere spento o resettato.
Il “miracolo” è possibile grazie all’esistenza di interruttori molecolari che agiscono sul Dna delle cellule tumorali facendole tornare normali o inducendole al suicidio. Tali molecole sono efficaci contro diverse tipologie tumorali e, dai primi test di laboratorio recentemente pubblicati sulla rivista italiana Nature Communications, hanno già dimostrato la loro efficacia sul melanoma.
Andrea Mattevi, docente di biologia molecolare presso l’Università di Pavia, afferma di essere riuscito, con il suo team e il prezioso contributo dall’Airc (Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro), a ideare piccole molecole in grado di colpire due obiettivi distinti – si tratta dell’enzima istone-deacetilasi e dell’istone-demetilasi – collegati e vicini nello spazio. Questi enzimi sono i responsabili di modificazioni chimiche, dette epigenetiche, che alterano la struttura 3D del Dna mutando l’accensione e lo spegnimento dei geni. Essendo una cellula tumorale una cellula impazzita si è pensato di sfruttarne la crisi identitaria colpendola.
La scoperta, partita con lo studio di una molecola usata contro depressione e Parkinson, non è stata ancora applicata sull’uomo ma la ricerca va avanti e aver capito che le molecole in questione sono selettive, ovvero che non colpiscono le cellule sane e possono essere utilizzate a basso dosaggio, è già un grandissimo passo avanti.
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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