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Per Zygmunt Bauman «La nostra è l’epoca del puro individualismo» eppure, a quanto pare, non solo chi fa per sé, citando un detto arcinoto, fa per tre ma vive anche meglio!
Già perché secondo quanto emerge dallo studio condotto da Masahiko Haruno, docente presso l’Università Tamagawa di Tokyo, sembrano essere molto più a rischio depressivo coloro che hanno un orientamento pro-sociale, che si fanno in quattro per aiutare il prossimo o che, semplicemente, mostrano un atteggiamento emotivo ed empatico, rispetto a chi, viceversa, degli altri se ne infischia e segue solo una religione: quella del puro egoismo.
Viviamo in una società che fa della competizione una propria caratteristica: sin dalla più tenera età cresciamo prefiggendoci dei traguardi per i quali, spesso, si è disposti a far terra bruciata di chiunque s’interponga tra noi e il nostro obiettivo. Tendiamo a vedere complotti ovunque, a diffidare del prossimo sempre e comunque, anche immotivatamente, al punto tale da trovare un’unica soluzione per non rimanere fregati: adottare un atteggiamento disinteressato nei confronti del mondo esterno. Difficile stabilire fino a che punto questo modo di fare sia una difesa che consente di proteggere sé stessi o, peggio, una buona scusa per sfogare il proprio avido ego ma, sta di fatto che, qualunque sia la causa di questa triste involuzione, tutto ciò non fa che alimentare un terreno sterile fatto di un individualismo i cui unici frutti saranno, inevitabilmente, intrisi d’egoismo.
Accecato dall’arrivismo e da un ego che si alimenta dei successi personali ma anche – forse soprattutto – dagli insuccessi dei suoi colleghi, sentiti quest’ultimi sempre come una possibile minaccia, quale consolazione potrebbe rappresentare, per il nostro infimo personaggio, sapersi, come suggerisce lo studio del professor Haruno, indenne dal rischio depressivo se, tanto per cominciare, non ha, avendo fatto piazza pulita di chiunque, nessuno a cui poterlo raccontare?
Non sarà meglio vivere un’esistenza emotivamente più turbolenta ma insaporita di umanità? «Homo sum: humani nihil a me alieno puto» recitava il poeta latino Terenzio in quella che è una frase-manifesto dell’altruismo e che ci ricorda, con buona pace dello studio giapponese, come nulla che riguardi l’umano debba essere a noi estraneo.
Nasco un piovoso giovedì di giugno con l’idea di osservare il mondo dei “grandi”. Benché l’indagine mi diverta molto, rimango stupita da alcuni errori commessi dagli adulti che stridono fortemente con quell’aria da “so tutto io”. In quanto giovane donna, la prima campagna che decido di abbracciare è quella contro la discriminazione sessuale: con una sensibilità fuori dal comune, alle elementari fondo l’illustre Club delle femmine e ottengo, ad esempio, la precedenza nell’uscita da scuola rispetto ai maschietti. Approdo nel periodo adolescenziale con le idee confuse, man onostante tutto sopravvivo ai brufoli e anche al liceo classico. Per l’università non ho dubbi: scelgo Lettere, mio padre ancora piange, ma avevo deciso: avrei fatto la giornalista. Ogni volta che scrivo la parola «giornalista» risuona nella mente la voce di una mia zia che aggiungeva con voce litanica: «che per la fame perde la vista». Poco male mi dicevo: cecata lo sono sempre stata e affamata, seguendo un celebre discorso di Steve Jobs, volevo proprio esserlo. Poi mi imbatto nella filologia ed è amore dal primo istante: pochi sembrano capirla mentre io m’immergo tra gli stemmata codicum, errori e varianti. Ricostruire la lezione originale mi diverte come poche cose al mondo. Ora vivo nel dubbio: giornalista o filologa? Nell’attesa di trovare dentro di me la risposta, da settembre del 2017 lavoro per “Felicità Pubblica”.
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