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Viaggi della speranza per fuggire da guerra, fame, malattie e devastazione. Lunghi giorni in mare con il sogno di arrivare in un luogo sicuro dove ricominciare a vivere. Vite spezzate dalla potenza del mare e della malvagità degli uomini. Sono scene con le quali, da anni ormai, anche noi italiani abbiamo iniziato a convivere quotidianamente. Scene che commuovono, che indignano, che rallegrano quando a lieto fine o che, per molti, accadono senza grandi sconvolgimenti nella propria vita.
Ma c’è qualcosa che si può fare per accogliere chi arriva senza esporlo ai rischi di un viaggio di fortuna, che troppo spesso si trasforma in una condanna a morte?
Sì, stando alla buona prassi dei cosiddetti Corridoi umanitari che nell’ultimo anno hanno già permesso a centinaia di persone di ottenere il visto umanitario ed essere accolte in Italia dopo un viaggio sicuro.
Per conoscere meglio l’iniziativa abbiamo intervistato l’avvocato Ilaria Valenzi della Federazione Chiese Evangeliche in Italia, tra i promotori del progetto insieme alla Comunità di Sant’Egidio e allo Stato Italiano.
Cosa sono i corridoi umanitari?
I corridoi umani sono un progetto pilota, che riguarda l’Italia, organizzato e promosso da alcuni partner di diverso tipo: le Chiese Protestanti che sono racchiuse nella Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia; la Tavola Valdese attraverso i fondi dell’8 per mille; e la Comunità di Sant’Egidio da parte cattolica. Quindi un progetto ecumenico. C’è la parte più istituzionale che riguarda il Ministero degli Esteri e il Ministero dell’Interno che, insieme alle Chiese, ha stipulato un protocollo all’inizio del 2015 per la possibilità di rilasciare dei visti per motivi umanitari per un numero di 1000 persone con la possibilità per queste persone, una volta arrivate in Italia in maniera sicura , di fare richiesta di asilo.
Quali sono i costi di tali interventi e chi finanzia l’iniziativa?
L’intervento è finanziato per la quale totalità dai fondi dell’8 per mille della Tavola Valdese. Le Chiese valdesi metodiste non destinano i fondi dell’8 per mille alle attività di culto, quindi ciò che riguarda il mantenimento interno della Chiesa, dal corpo pastorale alle strutture, agli edifici ecc. Ma destinano l’intera somma ad attività che abbiano finalità di tipo culturale e sociale. Quello dei corridoi umanitari è senza dubbio il progetto più grande ed economicamente più importante. Quello che a noi piace sempre ricordare è che con i fondi 8 per mille non c’è esclusivamente una partecipazione da parte ecclesiastica, ma con la firma dell’8 per mille sono i cittadini che finanziano il progetto dei Corridoi umanitari. Noi gestiamo solo i soldi, ma sono i contribuenti che sostengono il progetto. L’altra parte di destinazione economica arriva dalla Comunità di Sant’Egidio e si tratta principalmente di fondi privati, anche raccolti nelle parrocchie. Quasi la totalità del progetto è finanziata però dalla Tavola Valdese. Quanto alla cifra non so quantificarla esattamente, ma si tratta di una cifra molto alta che si aggira intorno agli 800 mila – 1 milione di euro. Dipende poi da cosa intendiamo, se solo la questione della gestione prettamente dei Corridoi umanitari o un progetto più ampio all’interno del quale i Corridoi umanitari sono inseriti. E’ un progetto che riguarda anche altre strutture territoriali che prevede anche un osservatorio a Lampedusa e altre attività svolte sul territorio che fanno tutte parte del progetto di cui i Corridoi umanitari rappresentano i rami più importanti.
Quante persone finora hanno beneficiato di questa opportunità?
Finora sono arrivate 500 persone, principalmente siriani ospitati in campi libanesi. Il progetto così come da protocollo firmato con lo Stato prevede l’arrivo di 1000 persone nell’arco dei primi due anni, 2016 e 2017. A fine dicembre 2016 siamo arrivati a 500, quindi in piena media con il preventivo che avevamo fatto, quindi 500 il primo anno e 500 il secondo anno. Chiaramente noi ci rendiamo conto che 1000 persone sono una goccia nel mare e che il progetto potrebbe essere incrementato numericamente. Non necessariamente dagli stessi partner ma anche da altri. Noi abbiamo fatto da apripista sulla questione, ma anche altri soggetti potrebbero promuovere iniziative e accordi simili incrementando così il numero di arrivi. Ovviamente il finanziamento è tutto a carico nostro, per cui sia il finanziamento che il numero dei permessi che vengono rilasciati dallo Stato sono oggetto di mediazione con le Istituzioni che hanno permesso la partenza del progetto.
In che modo avviene la selezione dei beneficiari?
Ci sono mediatori culturali, medici e operatori socio-culturali e giuridici che lavorano presso degli sportelli. In questo caso il primo sportello che ha permesso l’arrivo delle 500 persone è stato aperto in Libano. Anche se il progetto prevede anche la possibilità di aprire altri due sportelli, uno in Marocco per gestire alla migrazione dell’area subsahariana e l’altro in Eritrea per far fronte alle migrazioni dovute alla guerra in Sud Sudan. Queste persone presenti negli sportelli, dunque, selezionano i nominativi delle persone che possono ottenere il visto umanitario attraverso delle interviste che hanno a che fare con la questione del profilo umanitario della persona. Queste persone infatti possono entrare solo per motivi umanitari.
Ma quali sono questi motivi umanitari?
Il motivo umanitario ha a che vedere innanzitutto con motivi di salute, quindi necessità di cura, oppure con tutte quelle forme di fragilità del soggetto che necessita di una particolare attenzione perché appunto è in una condizione di assoluta fragilità. Donne sole con bambini, persone ammalate che hanno bisogno di cure, anziani.
Qual è la principale difficoltà che incontrate nell’attuazione del progetto?
Quando si parla con gli operatori che effettuano le interviste e si ascoltano i loro racconti si nota che la difficoltà maggiore si ha proprio nella selezione. Davanti si ha un’umanità vasta, variegata e fortemente sofferente, indipendente dalla sussistenza del motivo umanitario o meno. Cioè è un problema generalizzato di dover decidere a chi sì e a chi no. E questo mette in profonda difficoltà le persone dal punto di vista etico sicuramente, ma anche da un punto di vista dell’approccio emotivo e relazionale al tipo di lavoro che si fa. Spesso e volentieri, come raccontano gli operatori stessi, si hanno davanti ragazzi della stessa età dell’operatore e che però essendo cresciuto e vissuto in un’altra parte del mondo, ed avendo avuto una vita completamente diversa, si trova a dover fare delle interviste e a decidere se un suo coetaneo ha la possibilità di continuare ad avere una speranza di vita in Europa oppure no. E questa è senza dubbio la principale difficoltà. L’altra, alla quale si sta provando a dare una parziale risposta, è quella di provare a operare anche nei confronti di quelle persone alle quali il visto non può essere rilasciato. Da questo punto di vista si sta innestando all’interno del progetto dei Corridoi umanitari un altro piccolo progetto che attiene alla possibilità di stanziare, e poter eseguire operativamente, dei fondi per delle piccole operazioni o per somministrare terapie a persone che non avrebbero il requisito standard per avere il visto, ma che nonostante questo hanno bisogno di cure. Quindi c’è un tentativo aggiuntivo di seguire anche sul posto quelle persone che diversamente non avrebbero diritto a nulla, neanche a questo.
Quando i beneficiari arrivano in Italia, dove vengono accolti?
I beneficiari quando arrivano nel nostro Paese vengono distribuiti tra i due soggetti promotori del progetto: la parte protestante e Sant’Egidio per la parte cattolica. Per quanto riguarda la parte protestante, la Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia ha accolto come primo ente un grande numero di persone presso un centro di accoglienza presente vicino Roma. Successivamente per gli altri arrivi, invece, la Commissione Sinodale per la Diaconia, che è una struttura che si occupa di opere sociali per la Chiesa Valdese, ha messo a disposizione operatori e strutture fisiche territoriali per poter ospitare le persone cercando però di riprodurre non un meccanismo di comunità, quindi non una presenza diffusa e spesso anche indistinta dei nuclei familiari. Si è scelta piuttosto la possibilità di riprodurre in qualche modo dei piccoli nuclei che potessero dare un senso di superamento dell’idea del campo, che è l’esperienza che i profughi hanno vissuto per molto tempo in Libano, e che fosse appunto un ricominciare a riappropriarsi di spazi e di una dimensione individuale, quindi piccoli appartamenti e così via. Questo anche grazie al lavoro delle singole comunità delle Chiese Valdesi sparse sul territorio che hanno dato la propria disponibilità. Per quanto riguarda la Comunità di Sant’Egidio, invece, si avvale della collaborazione delle parrocchie locali.
Cosa fanno i richiedenti asilo del progetto quando arrivano in Italia?
La prima cosa che si fa, oltre alle cure mediche per chi ne ha bisogno, è l’approccio allo studio della lingua italiana per rendere le persone autonome. Per il nostro sistema legislativo le persone che arrivano in Italia e che fanno domanda di asilo non possono lavorare per i primi mesi di permanenza, fino a poco tempo fa era 6 mesi ora invece hanno abbassato un po’ il requisito a 3 mesi, ma c’è sempre un periodo in cui si sta in Italia ma non si può né lavorare né fare ricerca del lavoro. Questo periodo inizia con una sorta di assistenza che aiuta ad imparare la lingua italiana e poi a cercare di recuperare tutte le professionalità che le persone hanno. Perché spesso e volentieri noi abbiamo l’idea che il profugo venga dal nulla, che non abbia una vita passata, che non abbia un lavoro passato, che non abbia studi alle spalle. Spesso invece non è così, soprattutto per i siriani in questo caso. Quindi l’idea è di provare a recuperare la conoscenza delle persone, poterle indirizzare sull’incontro di una via lavorativa e anche in alcuni casi poter recuperare la possibilità di ricominciare a studiare. Ultimamente una ragazza che stava studiando Medicina e Chimica farmaceutica si è iscritta all’Università e ha ricominciato a studiare. E questo per noi è stato un primissimo grande risultato, perché c’è anche un problema di documenti che difficilmente si riescono a ritrovare. Quindi studio da una parte e dall’altra appunto recuperare il mestiere, o avviare a un mestiere attraverso la formazione, e ricominciare a vivere una vita normale.
Il modello dei corridoi umanitari può essere replicato in altre zone d’Europa?
Certamente sì, può essere replicato perché i Corridoi umanitari si fondano su un articolo del codice comunitario dei visti, il cosiddetto Codice Shengen, che prevede la possibilità di rilasciare visti umanitari, a territorialità limitata, cioè se dato in Italia ad esempio la persona può restare solo in Italia. Quindi potrebbe essere riprodotto altrove con l’utilizzo di questo articolo, ma questo chiaramente prevede la necessità di avere dei finanziamenti e di avere degli accordi con le Istituzioni. Perché la spinta principale che consente di attuare tutto ciò è la possibilità che si abbia una sensibilità a valutare il progetto come una buona pratica non soltanto per i soggetti promotori ma anche per lo Stato in cui si attua il progetto. Questo è il nostro auspicio e da questo punto di vista le Chiese Protestanti italiane che sono in rete con le altre Chiese europee hanno iniziato a tessere, già da tempo, queste relazioni. Ci sono interessamenti sia da parte francese che da parte tedesca. Stessa cosa sta facendo la Comunità di Sant’Egidio con le comunità sparse negli altri Paesi europei e in particolare con la Polonia dove la Conferenza Episcopale polacca ha offerto la possibilità di attuare un percorso simile anche nel proprio Paese. Ma chiaramente è tutto in divenire.
Qual è secondo lei il fattore più importante per il raggiungimento della Felicità Pubblica?
La ricerca della possibilità di entrare in una forma di relazione e di contatto umano mediante il recupero della nostra empatia. E’ un processo che diventa irreversibile. Il riconoscimento, nel soggetto che tu hai di fronte, della sua pari umanità rispetto alla tua. E questo pari riconoscimento relazionale è quello supera e rivoluziona il sistema che prevede una diversità, che poi è fondata sul nulla. Invece la reciproca umanità, che passa attraverso il riconoscimento empatico di un soggetto nei confronti dell’altro, è quello che ti porta ad un sistema di uguaglianza.
Sono nata ad Avezzano (L’Aquila) sotto il segno dell’acquario, il 18 febbraio 1981, e dal 2009 vivo a Montesilvano (Pescara). Socievole, chiacchierona e curiosa dalla nascita, ho assecondato questa naturale inclinazione laureandomi a 24 anni in Scienze della Comunicazione a Perugia e scegliendo il giornalismo come ragione di vita prima ancora che come professione. Dopo diverse esperienze come giornalista di carta stampata e televisiva, dal 2012 mi occupo di cronaca per il quotidiano abruzzese il Centro, oltre a curare diversi progetti come freelance. Tra le mie più grandi passioni, oltre alla scrittura, ci sono i viaggi, la fotografia e il cinema, che nel 2011 mi hanno portato a realizzare, come coautrice, un documentario internazionale sulla figura della donna nell’area del Mediterraneo. Dall’estate 2015 ho il privilegio di dirigere il portale Felicità pubblica. Indipendente, idealista e sognatrice, credo nella famiglia, nell’amore, nell’amicizia e nella meritocrazia e spero in un futuro lavorativo migliore per i giovani giornalisti che, come me, preferiscono tenere i sogni in valigia piuttosto che chiuderli in un cassetto.
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