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“Il malato immaginario”, quando il teatro è vita…anche in carcere

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di Francesco Lo Piccolo.

E’ proprio  vero che la vita è un sogno (come ha raccontato Borges), un circo (come ha sostenuto il grande Fellini), e infine un teatro (come ha spiegato il sociologo canadese Goffman). E la prova di tutto ciò l’ho avuta nei giorni scorsi quando per tre volte, prima nel teatro del carcere di Pescara e poi al rettorato dell’Università D’Annunzio ho visto messo in scena lo spettacolo teatrale “Il malato immaginario”, liberamente tratto dall’opera di Moliere e frutto del laboratorio di teatro della Casa circondariale di Pescara e di Voci di Dentro Onlus.

Un esperimento, questo del teatro fatto in carcere e poi portato fuori, che ha mostrato quanto mai è inutile il carcere e quanto mai è più bello e vero il mondo di fuori (anche quello sul palcoscenico). Mi sono commosso a sentire e vedere recitare quegli otto attori-detenuti assieme ai volontari e ai tirocinanti dell’Università D’Annunzio. Perché vi ho visto la vita. E vi ho visto una grande tappa del lavoro dell’associazione Voci di dentro per rompere lo schema della prigione che imprigiona cuore e menti, un sistema che lega a comandi che non responsabilizzano ma infantilizzano senza cambiare e migliorare, ma quasi sempre riproducendo carcere e carcerati uguali a se stessi.

Gli otto attori-detenuti hanno lavorato per otto mesi; insieme si sono formati, insieme hanno imparato la loro parte da portare sul palcoscenico: uno ha fatto da regista, un altro ha imparato ad ascoltare gli altri, a misurarsi con gli altri in una relazione tra persone che non erano la solita relazione e il solito rapporto tra carcerati, un altro ancora si è avventurato in un monologo che partiva dal suo cuore. Tutto questo da soli, autonomamente, senza il maestro che viene da fuori, ma trovando e riconoscendo al proprio interno il proprio maestro. Autonomi e responsabili. E il successo è stato grande, gli applausi tanti e lunghi. Il video dello spettacolo si può vedere qui, certo rispetto alla visione dal vivo molto si perde, ma ugualmente l’emozione arriva. Arriva la voce di Attilio-Argante che alla fine recita “bisogna morire per capire la vita … quando muori allora sì che vieni a scoprire la verità di tutto e di tutti, anche la tua, quella che hai dentro, che ti fa soffrire, che tu tieni segreto … ecco cosa ho imparato a fare il malato … ma sono contento perché mi è servito per guarire, mi ha fatto capire che la colpa di tutto quello che è successo è anche mia”.

Responsabilità, ecco che cosa impara e cosa insegna Attilio-Argante. Ecco cosa è stata e cosa è la vita: un sogno (alla Borges appunto) che lo ha portato, assieme agli altri attori-detenuti, fuori dal carcere, fuori dalla gabbia di quella identità che era l’unica che ha trovato e per indossarne finalmente un’altra; ma anche un circo (per usare le parole di Fellini) “dove tutti gli elementi vi si ritrovano, gettati là, alla rinfusa, così violenti, così tragici, così teneri. Tutti, senza eccezione”; e infine anche teatro “dove quotidianamente (per dirla con Goffman) noi mettiamo in scena immagini di noi stessi che cerchiamo di offrire alle persone attorno a noi”.

In definita una bella grande tappa per la Onlus Voci di dentro con la convinzione che la sicurezza non è chiudere le persone dentro, ma far sì che il dentro e soprattutto che il fuori lavorino affinché le persone abbiano quelle chance che non hanno avuto. Con la convinzione, ancora, che per fare questo occorre dare alle persone le chiavi del proprio futuro perché sono persone innanzitutto e non reati e che solo con momenti di responsabilizzazione e di autogestione del tempo e dello spazio si può ricostruire una vita.

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