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Riccardo Bonacina (Vita): “Il nostro è un giornalismo che guarda alla realtà”

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Come si racconta il complesso mondo del Terzo settore e del non profit? Qual è l’interesse del pubblico nei confronti di queste tematiche? Come è cambiato in questi anni il panorama dell’associazionismo e del volontariato, e quali sono state le trasformazioni nel modo di fare giornalismo?

Per rispondere a tutte queste domande abbiamo interpellato uno dei principali protagonisti del giornalismo sociale. Si tratta di Riccardo Bonacina, classe 1954, da oltre 20 anni impegnato a “raccontare l’Italia dei soggetti sociali in tutti i modi e ovunque”, come lui stesso dichiara. Giornalista, autore, conduttore radiofonico e televisivo, Bonacina è noto soprattutto per essere il fondatore e attuale direttore della testata giornalistica Vita, un magazine cartaceo e digitale dedicato al racconto sociale, al volontariato, alla sostenibilità economica e ambientale e al mondo non profit.

Di seguito il testo dell’intervista-video realizzata da Felicità Pubblica.

Riccardo Bonacina, fondatore e direttore di Vita, da oltre vent’anni con il suo lavoro ha acceso i riflettori sul mondo del volontariato. Quanto è difficile raccontare un mondo così complesso, variegato e spesso invisibile?

Se devo dire la verità non è stato difficile. Vita è nata a ottobre 1994, come settimanale del Terzo settore. Prima ho fatto un’esperienza in Rai con una trasmissione che si chiamava “Il coraggio di vivere”, dove avevo scoperto questo mondo che intanto è bello e divertente da raccontare, ti dà energia positiva senza nascondere i problemi. Anzi spesso sta dentro i problemi non facendosi ridurre al cinismo ma reagendo con positività. Quindi è un sogno per un giornalista andare dentro i problemi senza annegarci dentro ma trovando gli spunti, i percorsi, che riescono ad affrontare i problemi, questo vale per le malattie, per il disagio sociale, povertà, tutto quello da cui siamo circondati. Quindi non è stato difficile, impegnativo sì ovviamente, ma sono contento di averlo fatto.

Nel corso degli anni avete registrato una crescita dell’interesse del pubblico nei confronti di queste tematiche? 

Sì. La trasmissione televisiva è stata seguita da 2 milioni di persone, poi ho fatto radio, si chiamava “Radio Help” sulla Rai, poi “Senza fine di lucro” su Radio 24 del Sole 24 ore, e poi Vita. E devo dire che tutti hanno avuto un seguito di pubblico anche inaspettato, perché poi la gente è molto meglio di quanto la si dipinge, di quanto gli editorialisti e i mass media la dipingano. Abbiamo fatto un incontro con circa 300 ragazzi dell’Istituto professionale Sandro Pertini a Lucca e, cavolo, erano ragazzi che ragionavano bene, e non è scontato, interessatissimi, che intervenivano. Quindi il seguito c’è sempre stato, perché se tu interloquisci con le persone riconoscendogli dignità, le persone rispondono sempre.  Quindi l’interesse è cresciuto, non è mai mancato, e non manca se si è capaci di interloquire con loro.

Dall’alto della sua esperienza ritiene che quello del Terzo settore sia un mondo in cui, contrariamente a quanto si possa immaginare, si faccia ancora fatica a fare rete?

Sì, sì, è indubbio. Questa è anche una caratteristica del nostro Paese, che è il Paese dei campanili, delle torri. E quindi anche il volontariato soffre di questa frammentazione, di questa divisione. Però devo dire, negli ultimi 5/6 anni ho visto cambiare molto rispetto a questo difetto. Perché poi le Fondazioni magari fanno i bandi che richiedono le partnership, i Piani di zona dei Comuni convocano tutti i gruppi assieme, quindi sia per fattori esogeni che per fattori endogeni c’è stata questa capacità di mettersi assieme. Su questo credo che il mondo dell’associazionismo, del volontariato, della cooperazione, è in qualche modo cresciuto.

Tornando a Vita, è una testata che negli ultimi anni ha saputo adeguarsi alle nuove tecnologie, senza però rinunciare alla carta stampata, e proprio in questi giorni avete presentato un nuovo progetto editoriale. Di cosa si tratta?

Si tratta di un nuovo prodotto. Vita è un mensile e da aprile siamo usciti con un nuovo formato del mensile che cambia sia dal punto di vista cartotecnico che di come trattiamo i contenuti. Ed è il nostro modo di rispondere alla domanda “ma vale ancora la pena investire sulla carta laddove il web sembra dominare?”. Noi stessi abbiamo numeri crescenti sul web. La risposta che ci siamo dati è duplice: da una parte pensiamo che solo con la carta riesce a trasmettere una visione del mondo, un manifesto di condivisione di valori e di pratiche che il web non riesce a dare perché il web è un consumo di informazione superficiale. A noi capita di avere una notizia condivisa da 20 mila persone e poi vai a vedere Google Analitics e scopri che quella notizia è stata letta da 6 mila persone, per cui è stato condiviso il titolo e il sommario, cioè la parte visibile. Invece una rivista sta tra le mani dei lettori e riesce a trasmettere molto di più, perché devi leggerla. La seconda risposta è che pensiamo che però, per vincere la sfida, la carta debba essere sempre più di qualità come oggetto, quindi curata, impaginata, che usi linguaggi nuovi, per cui abbiamo introdotto per esempio il fumetto, una serie di linguaggi diversi dal solito. E anche però con contenuti durevoli. Noi abbiamo chiamato questo prodotto bookazine e non più magazine, perché è insieme una rivista, nella prima e nell’ultima parte, ma in mezzo ogni mese offre un instant book, ossia un vero e proprio libro suddiviso in capitoli su un tema che riteniamo rilevante. Questo mese (aprile, ndr) il tema è il boom del welfare aziendale, che è una partita dal punto di vista degli investimenti dei privati di 140 miliardi di euro, che la Legge di stabilità 2016 espanderà ancora di più perché ha introdotto settori che prima non erano previsti, come l’assistenza agli anziani non autosufficienti, e ha introdotto una defiscalizzazione molto forte, per cui le aziende praticamente non sborsano una lira per fare welfare aziendale. Per cui su questo tema abbiamo voluto fare un racconto completo, con le firme più autorevoli, mettendo in fila i numeri, e questo è un prodotto che noi pensiamo possa durare, è un punto definitivo ad oggi, e che può durare 6/7 mesi. Quindi è come un libro che tieni lì, hai bisogno dei numeri, hai bisogno dei ragionamenti, vuoi vedere le best practices in giro per l’Italia e li hai lì. Quindi qualità dell’oggetto, qualità dei contenuti, abbiamo provato a innalzare anche la qualità del linguaggio, ma poi direte voi se ci siamo riusciti.

Qual è la sfida che i giornalisti che si occupano di Terzo settore, e più in generale di economia civile, devono saper cogliere per fare la differenza?

Secondo me, la sfida di chi fa focus su queste cose, economia civile, Terzo settore, economia sociale, la prima sottolineatura è il modo di fare giornalismo. Perché diciamoci la verità, il giornalismo che guarda a queste cose è un giornalismo che guarda alla realtà. Spesso il giornalismo non riesce più a inciampare nella realtà, perché è un giornalismo d’ufficio, che stai al computer, guardi le notizie, poi hai 20-30 commentatori li chiami e gli chiedi un’opinione. Se sei un giornale nazionale raccogli un’opinione di uno contro l’altro, e l’altro risponde, che sia politica, sport, spettacolo. Ed è un giornalismo che non intercetta più la realtà. Il grande privilegio dei giornalisti che si occupano della vita civile, che sia economica, sociale, comunitaria, è che in qualche modo sono costretti a imbattersi nella realtà. E questa è una bellissima cosa.

Qual è, infine, per Riccardo Bonacina, il fattore più importante per il raggiungimento della felicità pubblica?

E’ dare spazio a tutto ciò che sta in mezzo all’ente pubblico, quindi lo Stato con le sue articolazioni, e il mercato, che è il luogo che si muove per il profitto. In mezzo c’è un territorio che non riesco più a chiamare neanche terra di mezzo perché c’è un’indagine della magistratura che si chiama così e che ci ha levato anche questa parola. Diciamo c’è un territorio intermedio fatto dalle relazioni tra le persone, fatto dall’economia, qualche volta informale ma qualche volta formale. Io sono di Milano e se penso a Milano senza le università, le fondazioni ospedaliere, le anpas, che cosa rimane di Milano? Sarebbe un deserto, un disastro, un luogo violento. Pensare alla felicità pubblica vuol dire dare spazio, fare racconto e dare dignità, dare voce, tenere alte le istanze di tutto questo spazio intermedio tra l’ente pubblico, che ha le sue funzioni, e il mercato, che consuma fiducia ma non riesce a crearla, perché si muove per il profitto. In mezzo c’è tutto un territorio che invece genera nuova fiducia, che è la cosa di cui abbiamo più bisogno. Abbiamo visto il sistema bancario, finanziario, senza fiducia ed è un disastro.

 

 

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