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«Quanti schiavi lavorano per te?».
Il sito internet Slavery Footprint si pone – e ci pone – questa domanda, con l’intento di generare riflessioni sull’effetto che i nostri acquisti, quotidiani o meno, hanno sullo sfruttamento dei lavoratori in tutto il mondo.
Lo stile di vita di ciascuno di noi, chiuso in un tipo di economia globalizzata e consumistica, sostanzialmente è in grado di svelarci, approssimativamente e con i possibili margini di errore, quanti sono gli schiavi di cui ci serviamo quando giochiamo a calcio, scegliamo una maglia che ci piace particolarmente, beviamo la nostra bibita preferita, indossiamo gioielli e orpelli vari.
Il sito internet non è nato, chiaramente, per indurre le persone a rinunciare a ciò che si ama fare, acquistare o comunque per criticare le nostre scelte personali. Vuole però indurre alla riflessione e insieme informare chi non sa, o non riflette, che dietro abitudini che noi giudichiamo buone e innocue a volte si nasconde un mercato umano di schiavi.
Schiavi che a volte sono anche bambini, che lavorano nelle piantagioni di caffè o nelle fabbriche che realizzano vestiario, cosmetici, pietre preziose.
Parliamo di Paesi sottosviluppati come ad esempio Africa, oppure Asia, America Latina in alcuni casi, nelle aree in cui vivono persone che soffrono la fame, per le quali lo sfruttamento è una scelta obbligata per sopravvivere.
Se conoscere è fondamentale, come ci si auspica, può esserlo altrettanto imparare a individuare quei prodotti che giustificano la schiavitù di esseri umani e violano i loro diritti.
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